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IL TERRORE COME METAFORA
12/06/2017|L'ANALISI

IL TERRORE COME METAFORA

IL TERRORE COME METAFORA
illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Flavio De Bernardinis

 

Leggendo il reportage di Lorenzo Cremonesi da Tripoli (Corriere della Sera, 02/06/2017), all’indomani dell’attentato di Manchester del 22 maggio, sotto la consueta questione del cuore di tenebra dell’Occidente, emerge anche del’altro.
Mohammad al Sharif, l’intervistato, amico dell’attentatore, sostiene infatti che Salman Abedi, il kamikaze, non beveva, non si drogava, tornava a casa presto la sera, non aveva nulla a che fare con la piccola criminalità, non aveva mai avuto una fidanzata, e passava tutto il suo tempo a contatto con la “religione”.
Entrambi, Mohammad e Salman, sono figli della rivoluzione contro Gheddafi (ma Salman era nato in GB), per poi militare, e combattere, su posizioni diametralmente opposte: la famiglia di Mohammad, in Libia, contro l’Isis e l’Islam radicale, mentre Salman faceva parte della numerosa comunità libica di Manchester (16.000 persone), ma sul versante jihadista.
I due non comunicavano più. Sembra che Salman parlasse persino un arabo poco corretto: la conclusione di Mohammad è che Salman faceva parte di coloro che sono “sradicati in Gran Bretagna, ma neppure a casa in Libia”.
Figli della guerra.
Dice infatti Mohammad: “Siamo abituati alla morte. Gli occidentali non possono capirlo. Loro venerano la vita. Nascondono la morte”.
Mohammad, in sintesi perfetta, descrive lo “stile di vita” occidentale.
La venerazione della vita, e la rimozione della morte.
“Io ho tanti compagni uccisi sul fronte di Bengasi “continua Mohammad ” Sono vivo e mi sento in colpa nei loro confronti. Non so come spiegarlo. Però posso comprendere il desiderio di morte che ossessionava Salman”.
Se il terrore è un attacco allo stile di vita occidentale, l’attacco è stato sferrato nel nome di ciò che lo stile stesso rimuove e nasconde, la Morte. Dare Morte a caso, seminarla ovunque, per rammentare ciò che, grazie allo stile di vita, l’Occidente ha rimosso e nascosto, la Morte.

DESIDERIO

Alain Badiou, ne Il nostro male viene da più lontano (Einaudi, 2016), descrive tre modalità di “soggettività reattive”, ovvero “forme psichiche, forme di convinzione e emozione del mondo contemporaneo globalizzato”:

1Soggettività occidentale – è la forma di convinzione e emozione della “classe media”, ovvero di chi si spartisce le “briciole” delle ricchezze lasciate a disposizione dalla “oligarchia dominante”, una élite planetaria che possiede l’86% delle ricchezze disponibili. La classe media costituisce il 40% della popolazione, concentrata nei “paesi più sviluppati”, ed evidenzia “una enorme soddisfazione di sé, quale rappresentazione di una entità che incarna e difende lo stile di vita moderno”.

2Desiderio di Occidente – il desiderio, frustrato, di possedere, condividere ciò che viene rappresentato nel punto 1: si tratta, scrive Badiou, “di adottare un comportamento e un consumo da classe media senza averne i mezzi”.

3 Soggettività nichilista – un desiderio di rivalsa e di distruzione di chi “vede la propria vita contare zero. Questo nichilismo si costituisce in apparenza contro il desiderio di Occidente, ma in realtà è il suo spettro nascosto. Il nichilista sa benissimo che se non attivasse la pulsione di morte, possibilmente assassina, in realtà soccomberebbe a sua volta al desiderio di Occidente che è in lui”.

I non-occidentali desiderano l’Occidente: appena si accorgono che non possono averlo, decidono di distruggerlo.
Se così è, non esiste nient’altro se non l’Occidente, a cui qualsiasi riferimento sociale, culturale e globale deve piegarsi.
Si resta imbrigliati talmente all’interno di una rappresentazione occidentale delle cose, che Badiou prosegue descrivendo l’etica della soggettività nichilista quale “etica fascista”.
I kamikaze sarebbero quindi dei “fascisti”.

– Badiou: “Questi giovani si considerano senza prospettiva: anche se istruiti, nessun posto conforme al loro desiderio. La ‘fascistizzazione’ renderà così il giovane simile a un mafioso fiero di esserlo, capace di un eroismo sacrificale e criminale: uccidere gli occidentali, sconfiggere gli assassini di altre bande, praticare una crudeltà spettacolare, conquistare territori, denaro, donne, auto e altro ancora. La religione può perfettamente essere il condimento identitario di tutto ciò. Diciamo che è la fascistizzazione che islamizza, e non l’islam che fascistizza”.

Il cattivo Islam, quello sterminatore, è ancora figlio dell’Occidente, che lo ha reso malvagio “fascistizzandolo”, ossia inculcando al suo interno una mentalità da “mafioso”, quasi da gangster hollywoodiano.
Detto questo, occorre allora fare un passo indietro.

IERI E OGGI

In una lunghissima intervista-conversazione del 1980, Elio Petri, il regista di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e La classe operaia va in paradiso, discuteva con il critico Aldo Tassone la questione del terrorismo in Italia:

– Petri: “È certo che le Brigate Rosse sono la prole naturale di due allucinazioni: quella della Grande Inquisizione, e quella stalinista. Le BR sono un’allucinazione dell’intera piccola borghesia, un’allucinazione che poteva accendersi soltanto nell’orrendo vuoto ideale di quella società che i cattolici italiani hanno costruito con le loro mani. Nel disastro culturale provocato dall’avvento d’una società di massa dominata da leggi disumane e miti crudeli, galleggiano i relitti di vecchi fanatismi, s’accende la follia. Da noi, il fenomeno di ammanta di ideologia; altrove, come in America, dove non ci sono più illusioni, esso rivela subito i suoi contenuti deliranti, nell’esplosione della follia individuale”.

Le Brigate Rosse, così, sono innanzitutto una metafora.
La metafora della piccola borghesia occidentale, ribellistica e frustrata, che risponde all’angoscia di una società integralmente svuotata di senso con il ricorso, ossessivo, alla dimensione del Sacro.
Sia lo spettro della Grande Inquisizione, sia quello stalinista, sono l‘allucinazione del Sacro, con cui la piccola borghesia risponde nevroticamente all’imperio della civiltà del consumo.
In riferimento al suo film più compromesso col terrore, Todo modo, 1976, tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, in cui si anticipa di un paio di anni persino l’esecuzione di Aldo Moro (ad opera di sicari del Potere Costituito), Petri puntualizza:

Petri: “Nel film il personaggio del prete [Don GaetanoMastroianni] si rende conto di una cosa che M. [Moro-Volonté] ha rimosso, e cioè che Dio è morto. E quindi la sua dissociazione è più drammatica di quella dell’uomo politico, e quindi il personaggio è anche più folle”.

Nel cinema di Petri, ancora una volta, il terrore è una metafora.
Il terrore, nella visione di Elio Petri, è metafora della dissociazione tra verità e follia, di cui il Potere sconta tutte le ossessive nevrotiche conseguenze.

Petri: “La normalità è una nozione ebraico-cristiana raccolta con intransigenza e fatta schema produttivo dallo sviluppo. Ma è fonte di malessere, di malattia, d’indifferenza, d’isterismo, di schizofrenia. La nevrosi ossessiva del dominio di rinnovarsi continuamente ci costringe a una incessante coazione a ripetere, da cui perfino la morte è esclusa. Con gli oggetti consumiamo la morte, l’amore, il potere, il sesso. La morte è un mero incidente riproduttivo. Basta programmarla, o farla costare meno”.

Nelle citazioni riportate ci sono già tutti i nodi della questione che ancora oggi ci riguarda.
Dal punto di vista dell’Occidente:

Aoggi, il terrore è l’angoscia eccezionale (che fa eccezione rispetto alla normalità) della classe media, della piccola borghesia;

Boggi, la morte, per l’Occidente, è qualcosa che si può consumare e programmare (poiché anche la morte è in fondo un’eccezione, un “mero incidente”);

Coggi, la normalità è un imperativo sociale e culturale (ovvero, la singolarità conformista dello “stile di vita”).

È del tutto evidente che il terrore contemporaneo, ovvero seminare la morte a caso, scardina tutto questo apparato percettivo e culturale.

Dal punto di vista del terrore:

A1oggi, il terrore è la pura e semplice normalità, ossia la vita quotidiana, da cui ogni allucinazione è esclusa;

B1 oggi, la Morte irrompe a caso: non è consumabile, né programmabile;

C1 oggi, la vita quotidiana è dominio della Morte: non c’è stile di vita esistente che possa opporre riparo.

Nello scarto tra i due punti di vista, A – A1 / B – B1 / C – C1, risiede quindi pienamente la dissociazione:

scarto A – A1 – il terrore è allucinazione, che il terrorismo conduce a normalità;

scarto B – B1 – la morte è un incidente di percorso, che il terrore conduce invece a pratica quotidiana;

scarto C – C1 – lo “stile di vita occidentale” è quella normalità conformista in cui tutti credono di essere “diversi”, e che l’irruzione casuale della Morte conduce a follia.

 – Petri: ” I miei film sono tutti un po’ folli, e un po’ assurdi, anche se partono da un dato apparentemente realistico. La sfida, o la scommessa col reale, è andare a vedere quello che c’è dietro la realtà borghese, de-banalizzarla, andare a vedere quali sono i contenuti veri, cercarne le metafore. La realtà, oggi più che mai, è solo una metafora”.

STILE

Qui sta il punto.
Il punto è che oggi, invece, la realtà è tutto tranne che una metafora.
Mentre le Brigate Rosse, pur reali, erano la metafora dell’allucinazione del Sacro della piccola borghesia, oggi la realtà è la realtà. E basta.
La cultura occidentale ha puntigliosamente perseguito la liquidazione di ogni investimento metaforico delle cose.
Il terrore ha perfettamente individuato questo aspetto della cultura dell’Occidente. Come dice Mohammad, infatti, gli occidentali venerano la vita, e nascondono la morte: sono strenui difensori di ciò che si può dire uno “stile di vita” basato sulla normalità della follia. Perché escludere la morte, come è evidente, significa pura follia.
C’è un dispositivo che rende operativo tutto questo. Il dispositivo dei media. Il sistema dei media – tv, giornali e rete –  ha prodotto ciò che è possibile definire il totalitarismo della realtà.
Il sistema dei media soddisfa pienamente questo bisogno della società occidentale, il bisogno di uno stile all’insegna integrale e totale della vita. I media – tv, giornali e rete – mettono così in azione un gigantesco dispositivo di rappresentazione totalitaria della realtà, che aderisce perfettamente al desiderio spasmodico, e altrettanto totalitario, di vita.
Come Mohammad ha spiegato molto più succintamente, e molto meglio di noi, vita e realtà sono il dogma occidentale che esclude e ignora tutto il resto.
E così, siamo tutti stilisti, tutti irreprensibili Dolce & Gabbana della vita e della realtà. Tutti compresi in uno stile di vita assolutamente “singolare”, percepito come unico, e al tempo stesso radicalmente “conformista”, ossessionato dalla diversità obbligatoria: i vegani, i vegetariani, quelli che mettono il letto rivolto verso Oriente, i forzati dello jogging, i dietisti spasmodici, gli spasimanti degli animali domestici e quelli non domestici, i rispettosi di tutte le regole e poi ribelli ad ogni tipo di Regola, i fanatici della coerenza nelle cose e poi insofferenti per le cose della coerenza, i consapevoli di ogni misterioso retroscena e poi inconsapevoli della scena manifesta… tutti discepoli dell’etica Dolce & Gabbana dello stile unico e conformista, tutti raffinati e rigorosi stilisti della vita e della realtà.
Totalitarismo dello stile di vita, da cui ogni Metafora è esclusa.

FORMAT

La rappresentazione totalitaria della realtà ha anche un nome: Format.
Il caso dell’algerino che assale la pattuglia di polizia fuori Notre-Dame, è emblematico in tale direzione: la vera notizia è che l’assalitore evidenzia una tipologia opposta a quella del terrorista canonico. Ha i video dell’Isis a casa, certo, ma in fin dei conti è semplicemente un signor Nessuno. È qualcuno che, in una dimensione in vitro, simile a un reality, attraverso il terrore, ha cercato di comunicare, o rivendicare, il proprio non-ruolo sociale.
Questo consente alla cultura occidentale una forma specifica di difesa. La difesa della cultura occidentale contro l’irruzione casuale, e seminale, della Morte, è quella di ridurre il terrore in un “gioco di ruolo”. Ossia una pratica di riconoscimento sociale attraverso le pure apparenze: come un reality, come un format
La “morte in diretta”, come può essere “la vita in diretta”.
I media, così, caratterizzano il terrore come un “gioco di ruolo” in cui, decifrati pochi segni elementari, poi si dà via libera all’evento.
Come è esattamente accaduto in piazza San Carlo, a Torino. Dove il terrore fatto “per gioco”, ha evidenziato i segni elementari e le regole del gioco (grida e scoppi), sprigionando così il totalitario e pervasivo “gioco del terrore”. Per cui, nell’ambito della comunicazione mediatica, il vero dibattito non ha riguardato l’allucinazione collettiva (la metafora), ma solo la cattiva amministrazione di chi, le autorità o le forze dell’ordine, non ha saputo adeguatamente vigilare sul gioco stesso. Non ha saputo (o voluto) gestire come si deve il format.
Il terrore, che invece possiede più “sguardo” di noi, più capacità metaforica di individuare i “contenuti veri” della psiche occidentale, ha subito intercettato la modalità con cui i media intendono rappresentare il terrore medesimo, ovvero il format, e immediatamente “ci gioca”
Basti pensare, per esempio, che, qualunque sia lo scopo, le cinture esplosive dei killer di Londra erano finte.

AL CUORE

Eccolo.
Questo, ancora una volta, è il colpo inferto al cuore dell’Occidente.

Distruggere ogni capacità di investimento metaforico degli eventi.

Colpo che l’Occidente si è già auto-inferto, e di cui il terrore, che ha più “sguardo” di noi, si è subito impadronito.
Non è questione, allora, come pensa ancora Badiou, se è l’Islam a fascistizzare, o il fascismo a islamizzare. La questione è l’opzione obbligata (dai media) di una cultura totalitaria della vita e della realtà.
Il totalitarismo dello stile di vita, che il terrore, come Mohammad ha spiegato molto meglio di noi, ha subito individuato con lo sguardo che va nella profondità delle cose, scorgendo in ciò la metafora occidentale della fine di ogni metafora.
Il terrore contemporaneo, allora, si radicalizza proprio qui, sul vuoto delle metafore di una cultura occidentale prigioniera nell’universo concentrazionario dello stile di vita.
Il terrore ha visto quello che l’Occidente si impegna a studiare e poi si ostina subito a rimuovere. Che il Nichilismo non è la descrizione della fine delle Grandi Narrazioni. Il Nichilismo è la Grande Narrazione dell’Occidente contemporaneo.
Che per essere svuotato, va innanzitutto riempito. Di metafore.


Flavio De Bernardinis è docente di Analisi del linguaggio cinematografico e Storia del cinema presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Ha curato il volume 1970-1976 della Storia del cinema italiano. Tra i suoi saggi Nanni Moretti, Robert Altman, L’immagine secondo Kubrick, Arte cinematografica. Il ciclo storico del cinema da Argan a Scorsese.

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