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IL TERRORISMO FILOSOFO
15/06/2017|L'ANALISI

IL TERRORISMO FILOSOFO

IL TERRORISMO FILOSOFO
illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Matteo Sarlo

 

«Come possiamo salvare l’umanità e le sue conquiste spirituali, delle quali siamo gli eredi? Come si può salvare l’Europa da un nuovo disastro?». Sono parole di Albert Einstein, poco prima che partisse per l’America. Sarà stato pure un genio dell’universo ma i rapporti tra gli uomini, quelli sono un’altra cosa, parafrasando l’amante segretaria che in apertura di stagione ammonisce un anziano Geoffrey Rush. Come possiamo salvare l’umanità e le sue conquiste spirituali: un curioso aggettivo per denotare una conquista. Fu costretto a fuggire e imbarcarsi per l’America. Compiuto quel tragitto, non avrebbe più rivisto l’Europa. Almeno non dal suo interno, guadagnando forse uno sguardo che Derrida, di certo il Derrida dell’Autre Cap, avrebbe considerato più adeguato per trovarne una sua definizione, quello che viene sempre dall’altro.
Eppure questo è l’unico gesto che impone successivamente la tematizzazione dell’essenza di quel che costringe alla fuga. Perché solo quando si è lontani, solo quando si è dall’altra sponda, si abbandona uno sguardo intestino per meglio osservarne la totalità. Quel che Einstein sfugge è notoriamente l’inizio di una seconda guerra mondiale.

 Dalla Stasis alla guerra civile globale

Una guerra mondiale che, per dirla con il filosofo Giorgio Agamben, conserva i tratti germinali di quel che si potrebbe definire Stasis, prendendo a prestito il lessico greco per la guerra civile, la guerra fratricida in cui il fratello uccide il fratello ma che al contempo diventa affare di Stato. Una guerra che, per sua costituzione molecolare, impone la rottura del limite tra il dentro e il fuori. Scrive Agamben che la Stasis, lungi dall’essere la guerra in casa, è un dispositivo che funziona «in modo simile allo stato d’eccezione». Quel che stava accadendo in Europa allora, almeno secondo la lettura di Donatella Di Cesare, era non soltanto l’inizio di una guerra mondiale ma, più precisamente, una guerra civile globale. Una guerra che recupera lo stato di violenza hobbesiana di tutti contro tutti trasferendola da ante patto a post patto. Un patto fondato per due semplici motivi: il controllo delle passioni e la self-preservation.
Per Hobbes (Leviatano XVII) occorre arginare la Gloria e il Terrore, per guadagnare non la libertà ma quella self-preservation sempre minata e messa a repentaglio nello stato di natura. Seppure Hobbes si muove nella strettoia per la quale da una parte lo stato di natura non può essere troppo debole (non si capirebbe il motivo per cui lo stato civile dovrebbe superarlo nel senso della sovranità assoluta) e dall’altra non può essere troppo fortemente giustificato (è ovvio che così facendo diventerebbe impossibile pensare il passaggio allo stato civile), il passaggio al patto è per Hobbes razionalmente giustificato.
La natura del patto è esattamente quella dello scambio e del calcolo. Utilizzando il lessico del fenomenologo praghese Jan Patocka, il patto hobbesiano si fonda allora tutto sull’economico, per meglio allontanare il pericolo dell’orgiastico. Oggi siamo, a tutti gli effetti dominati dall’economico, una dimensione che sembra aver compiuto quella tensione all’universalità ricercata nel 1935 da Edmund Husserl, quando nella conferenza tenuta a Vienna ammoniva i suoi uditori rispetto alla nozione di Crisi, che segnava secondo l’autore della Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale la marca dei suoi tempi.
Con uno slogan provocatorio, potremmo dire che oggi l’universalità dell’Europa, figura della filosofia, è stata raggiunta e ha sede a Francoforte: BCE (Banca Centrale Europea). L’“economico” garantisce la self-preservation, il libero scambio, in ultima sostanza la Libertà, almeno quella positiva, di espressione, di giudizio, di stampa…
Ma qualcosa è andato storto nella storia del cammino della razionalità. Forse perché, teoreticamente, è proprio la compiutezza a tracimare nel suo opposto, in una sorta di metabolè eraclitea dalla quale non può che scaturirne il contrario freudiano: il desiderio di morte.

Charlie Hebdo – Bataclan.
Due monoteismi a confronto?

Cosa è accaduto a Charlie Hebdo prima e al Bataclan poi? Secondo una prima lettura, quella offerta dall’intelligenza mass-mediatica ci sarebbe in atto una lotta tra due monoteismi, islamico e cristiano, che si declinerebbe sul piano politico nella lotta tra un fondamentalista oltranzista e un progressista neoliberale. Quindi L’Europa difenderebbe la sua identità rigettando le scorie jihadiste e ripetendo come un mantra Je suis Charlie. Ma vediamo, le cose potrebbero stare diversamente.
Samy Amimour, uno dei tre terroristi della strage al Bataclan, aveva 28 anni quando ha attivato la sua cintura esplosiva. Ismaël Omar Mostefaï 29 anni, ne avrebbe compiuti 30 il 21 novembre. Foued Mohammed-Aggad ne aveva 23, le ascelle rasate secondo la pratica compiuta dai martiri prima di morire. Tutti e tre erano francesi.
La domanda sarà forse banali ma è in un certo tipo di banalità che alle volte risiedono alcune evidenti verità: Quando hanno avuto il tempo di diventare così oltranzisti questi giovani ragazzi francesi? La risposta è semplice, non lo sono mai stati. Perché il vero fondamentalista è talmente convinto della sua verità, talmente prigioniero del suo credo, da non vedere nulla fuori di sé. Dietro la falsa guerra integralista si nasconde quanto meno una nozione di appartenenza: sono tutti ragazzi figli dell’Europa che hanno voluto appartenervi e che vendicano il loro personale rifiuto in esplosioni di violenza irrazionale.
Ora, ci sono due modi per leggere e tradurre teoreticamente l’anagrafe di questi “ragazzi”, uno lacaniano e uno nietzschiano.

A – Il terrorismo spiegato da Lacan

Secondo la triade Simbolico-Immaginario-Reale (triade che Jacques Lacan mutua dalla freudiana Super-io, io, es) Il terrorismo non sarebbe l’altro dal liberismo ma il suo cuore reale che viene alla luce. Il simbolico sarebbe l’identità economica, l’immaginario il suo aspetto liberale, il reale il terrorismo. L’atto a grado zero che è l’evento terroristico allora, l’atto per l’atto, non conserva alcun grado di potenza ma, precisamente, è figlio della potenza, è la risposta ad una volontà di potenza dell’economico, una sua diretta partenogenesi, il suo reale nascosto, il suo es.
Non si tratterebbe allora di una guerra tra religioni, è vero, tuttavia sarebbe un errore metodologico – che faciliterebbe la vita è vero ma al prezzo di una taglio con l’accetta delle differenze – espungere la nozione di sacer. Si è detto che l’atto terroristico, una violenza senza potenza, una violenza nuda, è quel che spinge il limite, che vuole sfondare i limiti e i muri, che vuol far saltare in aria le riserve di razionalità su cui si fonda il patto europeo. Per dirla ancora con Jan Patocka la figura dell’economico ha progressivamente voluto ripararsi e espungere fuori di sé l’orgiastico ma l’orgastico vuole dire identità col sacro, con l’elemento di matrice irrazionale: il rimosso allora è destinato a tornare, e minare le sacche di razionalità europea.
Cosa fare allora? Intanto, teoreticamente, prendere consapevolezza della costituzione molecolare dell’identità europea, mai davvero unitaria ma sempre almeno duplice e raddoppiata, fatta di se stessa e del suo altro, come ben sapeva Jacques Derrida. E prendere consapevolezza che, per quanto lo si voglia negare, siamo in guerra ma una guerra, per così dire, intrapersonale in cui il mio nemico è il mio es. Sarebbe un errore pretendere che la cura sia freudianamente allora il super-io perché la partita non si gioca sul simbolico. L’impressione è che invece che ad oggi la vera crisi sia sull’altro piano, quello che manca da tempo dalla partita e che forse ne detiene la cura: il piano dell’immaginario. Nella battaglia, tutta di marca europea, tra simbolico e reale, quel che forse può fare la differenza è la fondazione di un nuovo immaginario, terreno fertile per la costruzione di una più sincera e controllata Libertà.

B – Il terrorismo secondo Nietzsche

Rileggiamo ora l’anagrafe dei tre “ragazzi”, questa volta però con chiavi di lettura nietzschiane. I tre terroristi di Parigi non hanno nemmeno 30 anni così come Salman Abedi, il terrorista di Manchester, che ne aveva soltanto 22. Chi sono queste figure della modernità? Qui le riflessioni di tre grandi filosofi convergono almeno su un punto, lo strumentario di analisi. Sia per Slavoj Zizek (L’islam e la modernità) sia per Donatella di Cesare (Terrorismo e Modernità) sia per Alain Badiou (Il nostro male viene da più lontano), occorre utilizzare il lessico nietzschiano.
La vera domanda è: sono, queste figure della surmodernità, figure neo-nichiliste?
Molto tempo fa Friedrich Nietzsche si era roso conto che la civiltà occidentale procedeva nella direzione dell’ultimo uomo, una figura che ingerisce «un po’ di veleno di tanto in tanto per fare sogni piacevoli. E molto veleno alla fine, per un piacevole morire. […] Si ha il proprio piacerino per il giorno e il proprio piacerino per la notte: ma si sta attenti alla salute. “Noi abbiamo inventato la felicità” – dicono gli ultimi uomini e ammiccano»(Così parlo Zarathustra).

Tre filosofi a confronto: Slavoj Zizek- Alain Badiou – Donatella Di Cesare

Di fronte alla realtà del nulla il nichilista passivo si accontenta di essere individualmente felice. Non è allora questa la distinzione, si chiede Zizek, tra il nichilista passivo e il nichilista attivo, cioè tra l’uomo occidentale che gode di piaceri piccoli attento soltanto alla hobbesiana propria self-preservation (post-patto) contro il terrorista che invece mina e vuole decidere l’orario e la modalità di questo nulla?
Secondo Donatella di Cesare si stratta proprio di questa contraddizione, lo scontro in atto: «Per Nietzsche, e ancor più per Heidegger, il terrorista sarebbe una figura estrema della reazione esistenziale, ontologica, politica. Perché non regge la forza esplosiva del nulla, non se ne fa carico. Vorrebbe invece dominare quella potenza decidendo di sua volontà, luogo e tempo della detonazione. Ma alla fine le sue bombe non sono che sfoghi di rabbia violenta e impotente. Il terrorista non è un nichilista. Piuttosto si erge sul limite ultimo dove la storia sembra agonizzare pretendo di cancellare il termine, di s-terminarlo».
È bene chiarirlo, per Donatella Di Cesare il non essere nichilista del terrorista corrisponde all’essere nichilista attivo di Zizek: cioè la decisione del diventare colui che non si accontenta di lasciarsi assorbire dal nulla ma che vuole decidere, da soggettività, il proprio nulla.
Senonché per Zizek le cose non stanno nemmeno così, la polarità nichilista attivo-nichilista passivo, sintetizzata nei versi di William Butler Yeats I migliori difettano di ogni convinzione, i peggiori / sono colmi d’appassionata intensità, difetta su un punto preciso: il vero fondamentalista non ha alcuna forma di risentimento nei confronti di chi non la pensa come lui. Semplicemente, se ne frega. L’intensità passionale dei terroristi testimonierebbe invece, secondo Zizek, proprio della mancanza di una vera convinzione:
«Il terrore del fondamentalista non si radica nella convinzione di una presunta superiorità e nel desiderio di proteggere la propria identità culturale e religiosa dall’assalto della civiltà consumistica globale. Il problema dei fondamentalisti è che sono loro stessi, per primi a considerarsi inferiori a noi. […] Paradossalmente, ciò che manca ai fondamentalisti è una buona dose di vera convinzione “razzista”, la certezza della propria superiorità».
Vicino a questa posizione è anche Alain Badiou, secondo il quale a muovere le azioni di queste figure dell’eccezione è il desiderio di rivalsa «di chi vede la propria vita contare zero. Questo nichilismo si costituisce in apparenza contro il desiderio di Occidente, ma in realtà è il suo spettro nascosto. Il nichilislta sa benissimo che se non attivasse la pulsione di morte, possibilmente assassina, in realtà soccomberebbe a sua volta al desiderio di Occidente che è in lui».

La libertà dell’immaginario

Un tentativo di lettura di questa complessa e frastagliata realtà è incrociare la lettura lacaniana con quella nietzschiana e tornare alle parole di Einstein: «Come Possiamo salvare l’umanità e le sue conquiste spirituali, delle quali siamo gli eredi? Come si può salvare l’Europa da un nuovo disastro?»
La tragedia dell’Europa nasce dall’affievolirsi del suo patrimonio spirituale. Un patrimonio codificato in millenni, e che ha consentito all’Europa, pur se in mille contraddizioni, di essere un faro di civiltà e orientamento a livello planetario. Ancora fino al secondo dopoguerra, l’Europa ha risposto alla crisi segnalata da Einstein e Husserl: la nascita prima della Comunità Economica Europa e poi della Unione Europea è stato l’ultimo grande tentativo di costruzione di un nuovo immaginario e prefigurazione di un nuovo mondo a venire. Quel che rimane, oggi, sull’orlo di una civiltà che è ancora messianamente in attesa dell’uomo nuovo e che è fatta principalmente da ultimi uomini, è purtroppo l’aspetto economico che governa la self-preservation, un aspetto per sua natura passivo. L’economico è tuttavia un dato simbolico incapace di esprimere l’immaginario di orgoglio e senso delle civiltà, nel senso pieno che Lacan conferisce al termine, non quello di essere immaginazione e finzione ma essere il complesso culturale di una società. L’economico è incapace per sua stessa essenza di esprimere questo immaginario ma ne ha tuttavia bisogno. Perciò si è costruita la sua narrazione.  Una sua narrazione è che è soprattutto narrazione di merce. L’immaginario che ne deriva è allora quello dell’ascesa dei consumi e di una nuova metafisica: la metafisica del mercato, divenuta essenza trascendentale della società occidentale contemporanea.


Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passagi sul vuoto, un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia

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