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All You Can Eat. L’Infinito a portata di Bacchette
27/02/2018|L'ANALISI

All You Can Eat. L’Infinito a portata di Bacchette

All You Can Eat.  L’Infinito a portata di Bacchette
illustrazione di Simona Bramucci
parole di Lorenzo Di Maria
Il Sushi All You Can Eat è l’espressione dello sviluppo capitalista: il valore cede il passo alla logica dell’accumulazione. Quel che conta è andare sempre in avanti, mai in profondità. E sempre seguire quella logica che Hegel ha chiamato della «cattiva infinità».

Ci sono bacchette e bacchette. C’è quella, al singolare, di Riccardo Muti e dei grandi direttori d’orchestra. E Ci sono quelle al plurale, degli chef giapponesi. Tutte e due hanno una cosa in comune. Creano una sinfonia. Note e sapori. Come a dire, sia lo spartito che il menù rimandano a qualcosa che trascende il suono e il sapore. Poi si sa, tutto viene trasformato dal mondo globalizzato. E così può accadere che la sacra arte giapponese si trasformi in All You Can Eat. Ormai siamo tutti habitués degli AYCE.

«Tempura di gamberi?»
«Poca ché gonfia».

«Maki?»
«Sì vai con un x12, ché questi vanno giù che nemmeno te ne accorgi».

Ecco un ordine che è il primo di una lunghissima serie, potenzialmente infinita. Perché, in barba alle capacità e alla salute dei nostri stomaci, ciò che ci attrae dei cosiddetti AYCE è l’illusione di non avere limiti.

«Che dici, barca?»
«Siamo sicuri? Abbiamo già preso sashimi, maki e nagiri separatamente»
«Ora non fare il pignolo! Prendi la barca, quella grande».

Impossibile non accorgersene: moda e sushi. Lo si appura non solo attraverso i dati e le statistiche, ma anche semplicemente guardandosi attorno. Chi come me viene dalla provincia sa bene che fino a non più di dieci anni fa le cucine orientali erano viste con sospetto (per usare un eufemismo) da chi, mediante il pregiudizio, ribadiva l’attaccamento alla propria gloriosa tradizione gastronomica. Oggi, invece, giovani e adulti riversano sui social la propria indignazione “perché – cito uno dei tanti post sull’argomento – è inaccettabile che nel 2018 non sia stato ancora aperto un AYCE giapponese a Termoli”.

L’estetizzazione del nighiri
Basta connettersi ad Instagram, aprire le “storie” o scorrere i post: è impossibile, quantomeno rarissimo, non trovare qualcuno dei nostri “seguiti” in qualche ristorante giapponese, intento a fotografare le varie portate. Ecco, fotografare il cibo ormai è un’abitudine. Si dirà che in fondo, in cucina, l’occhio ha sempre voluto la sua parte. Vero: del resto anche la pasta e fagioli di mia nonna ha un aspetto delizioso. Il proliferare di foto di pietanze sui social obbedisce però ad una logica che non si ferma alla necessità biologica del “far venire l’acquolina in bocca”. Tale fenomeno sociale, infatti, andrebbe piuttosto ricollocato all’interno dello stesso humus culturale in cui si colloca Masterchef. Le foto su Instagram e il successo della ristorazione giapponese sono legati a doppio filo ai motivi antropologici che stanno dietro il trionfo del talent per aspiranti cuochi. Nella debordiana società dello spettacolo, neanche il cibo sfugge ad un destino estetizzante: si mangia prima (ma anche solo) con gli occhi che con la bocca, il cibo viene riconfigurato attraverso criteri artistici e quindi come medium per un’esperienza sensoriale, estetica, a tutto tondo.

Il gusto per l’esotico
I maestri del sushi, complice l’intramontabile gusto europeo per l’esotico, offrono la possibilità di una tale esperienza. La loro cucina è arte, e l’impatto visivo, oltre che gustativo, è indubbio. Ecco una prima questione. La cucina giapponese ha senz’altro un’eccezionale componente artistica, ma questa va sempre ricondotta a quella secolare tradizione che la sostanzia e le attribuisce senso. Quelle che per noi sono solo sfiziose polpette di riso e pesce crudo dalle forme più disparate, in patria hanno un significato connesso allo scorrere delle stagioni e, in generale, ad una certa ritualità.

Lo capì bene Alexandre Kojève, il noto interprete hegeliano che, visitando il Giappone, ebbe modo di studiare i riti e le cerimonie di quel popolo: un puro, “gratuito”, formalismo che non ha (più) analoghi in un Occidente dove invece la tradizione ha perso appeal: siamo bombardati da forme anziché viverle nella loro essenza, e la rapidità a cui siamo costretti mal si coniuga con la lentezza della ritualità, sempre collocata al di fuori del tempo. Insomma, è come pensare di fare Yoga non sapendo nulla di Patagnali o della energia kundalini. Perché mangiare il sushi secondo la tradizione è ben altra cosa rispetto alla spettacolarizzazione che esso subisce qui in Occidente.

Ma in fondo il portato universalizzante e nichilista della globalizzazione ci ha abituati a tutto ciò. L’incontro di quella cultura gastronomica con la nostra, del resto, non va inteso come un problema etico ma solo come un modo in più per riflettere sulla nostra epoca. E cruciale diventa, in tal senso, l’immissione della tradizione orientale nelle logiche occidentali del consumo, sintetizzabili in quattro parole: All You Can Eat.

Infinita Quantità Vs Infinita Qualità
«Qui il menu no-stop è a 25 euro. Come minimo, dobbiamo fare tre giri abbondanti».
L’AYCE è lo specchio di quella che Hegel chiamava “cattiva infinità”. È l’infinito del “+1”, di quel qualcosa che è sempre un altro, di quell’altro che è sempre e solamente un qualcosa. Per Hegel il “vero infinito” aveva a che fare piuttosto con la qualità, quel significato in grado di tenere insieme i finiti pur nelle loro differenze. Sommare, continuare ad aggiungere, accumulare, infatti, significa solo ricollocare il senso in un’alterità che è comunque un qualcosa di finito, significa rinunciare alla qualità in funzione della quantità, significa fuggire la fatica di un’esperienza estetica totale illudendosi di poter facilmente trovare soddisfazione nel prossimo uramaki, mandato giù esattamente come il precedente. Agli All You Can Eat diamo il meglio di noi, cioè il peggio: partono gare, sfide a chi mangia di più, e si arriva addirittura a sbriciolare il riso nei tovaglioli e nelle tasche pur di non pagare la famigerata penale. Senza dubbio, lo scegliamo per un discorso di convenienza economica: con 20 euro mangio il doppio o forse tre volte quel che mangerei con gli stessi soldi ma alla carta, e se posso permettermi una serata all’AYCE ogni due settimane, potrò mangiare in un ristorante giapponese che non prevede questa formula solo una volta ogni due mesi.

In realtà, anche tralasciando ogni possibile insinuazione circa la freschezza, e dunque la qualità del pesce utilizzato negli All You Can Eat, ricerche e studi hanno dimostrato che non sempre si mangia tanto quanto si pensa, non sempre si mangia molto più sushi di quanto se ne mangerebbe con menu alla carta, e soprattutto è stato notato che con l’oscillazione del prezzo dell’AYCE oscillerebbe anche la nostra presunta fame. No, non è (solo) questione di appetito: è l’impulso a fuggire la sazietà, o quantomeno a spostarla un po’ più avanti.

In avanti, mai in profondità
Il fatto che il giapponese vada di moda non vuol dire caratterizzarlo negativamente, vuol dire solo ritrovarci in esso. La nostra è l’epoca in cui il valore cede il passo alla logica dell’accumulazione frenetica. Non conta il cosa (o il come), conta il quanto (o il quando). E un deficit qualitativo passa in secondo piano rispetto ad un surplus quantitativo. Non è solo l’All You Can Eat, è bensì l’intero sviluppo neocapitalista a muoversi sempre in avanti, mai in profondità. Del resto, cosa può la logica del valore assoluto contro chi ci offre l’infinito a pochi spiccioli? Ma che infinito è quello che rinuncia al valore delle cose e punta tutto sulla quantità? Si tratta piuttosto di un’illusione di infinità, della possibilità – necessariamente inappagabile ma comunque virtualmente offertaci – di non fare i conti con la finitezza. Cercare l’infinito nel finito, l’illimitato nel limite, è compito ben più arduo e faticoso rispetto alla possibilità di ingozzarsi, di pensare sempre a “ciò viene dopo”, al prossimo ordine. Ciò che conta non è il Can se ci viene offerto l’All. Ma nell’epoca in cui il limite è divenuto cosciente e per ciò stesso insormontabile, l’illusione di poter mangiare sushi all’infinito, no-limits appunto, è un’illusione preziosa. Anche a costo di uscirne costipati.


Lorenzo Di Maria è laureato in Filosofia con una tesi sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève. Ha pubblicato articoli per Lo Sguardo e Players.

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