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Black Mirror, o dell’uomo nella Postmodernità [PARTE 1]
18/01/2018|L'ANALISI

Black Mirror, o dell’uomo nella Postmodernità [PARTE 1]

Black Mirror, o dell’uomo nella Postmodernità [PARTE 1]
illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Lorenzo Di Maria
Dagli scenari distopici di natura heideggeriana sul rapporto uomo-tecnica alla andersiana vergogna prometeica delle precedenti stagioni, Black Mirror approda ad una autentica analisi della natura dell’uomo nella Postmodernità.

Se da un lato è innegabile che Black Mirror sia una potentissima critica a quel processo che rende, invenzione dopo invenzione, upgrade dopo upgrade, la tecnologia il vero soggetto della storia, o di converso il soggetto umano un oggetto, un mero contenuto riempitivo e funzionale (laddove il soggetto della funzione è altrove, nella macchina), è altrettanto innegabile che qualche gradino più in basso rispetto alla superficie “apocalittica” della serie targata Netflix è nascosto il suo cuore (teorico) pulsante: l’autentica natura dell’uomo nella post-modernità.

Lo “specchio nero” dei nostri smartphone e dei nostri computer è sì il prodotto tecnico che ci sovrasta e organizza la nostra esistenza, ma è prima di tutto, appunto, uno specchio, anzi la prima superficie riflettente su cui ritroviamo il nostro volto al mattino, o perlomeno su cui ci specchiamo più di frequente. Insomma, l’analisi del rapporto con le tecnologie restituisce, prima e più di ogni altra cosa, l’immagine del volto, dell’essenza, dell’uomo oggi.

EPISODIO 1. USS CALLISTER

“Spazio, ultima frontiera. Eccovi i viaggi dell’astronave Enterprise diretti all’esplorazione di nuovi mondi […] per arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima”. Per ogni appassionato di fantascienza queste parole suonano come squilli di tromba: “Attenzione signore e signori, inizia un nuovo episodio di Star Trek”. Basta quell’inciso, “Spazio – pausa – Ultima frontiera”, e in un attimo si è catapultati altrove, ad anni luce di distanza dalla terra, appunto “là dove nessun uomo è mai giunto prima”.
Agosto 2016. Hello Games rilascia No Man’s Sky, “il cielo di nessuno”, un videogioco con ambientazione fantascientifica che punta su una novità rivoluzionaria: si basa su un algoritmo procedurale in grado di generare automaticamente un numero infinitamente grande di mondi diversi, tutti da esplorare a bordo della nostra personalissima Enterprise. Il riferimento appare con tutta evidenza in Infinity, il videogame creato da Robert Daly in questo primo, lungo, quasi cinematografico, episodio della quarta stagione di Black Mirror.

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Molti sono gli spunti di riflessione, e sicuramente un primo aspetto su cui bisognerebbe focalizzarsi è la funzione catalettico-alienante del gioco (non una critica al gaming in sé ma uno svelamento di ciò che psicologicamente rappresenta). A cosa è dovuto infatti il successo planetario di Infinity (e di No Man’s Sky)? E dunque quale esigenza umana rappresenterebbe? Il successo è dovuto proprio all’algoritmo procedurale, al fatto che il gioco generi da solo, a nostra insaputa, una indefinita alterità. Ed è proprio questa esigenza dell’alterità, dell’inesplorato, dell’imprevedibile a rappresentare la cifra di una umanità viva. Insomma, è inutile: abbiamo bisogno di vivere l’infinito, inteso esattamente come ciò che non è (de-)finito una volta per tutte. Il problema è come ciò avvenga e secondo quali modalità. In un mondo saturo, senza spazi (e tempi) vuoti, senza residui di impossibilità conoscitiva, tutto perfettamente allineato ad un solo way of life, e in cui le news h24 hanno completamente disinnescato la potenza del Novum, gli unici spazi infiniti da esplorare non possono che essere quelli digitali. E se la proceduralità, per certi aspetti, sottrae il videogioco al suo carattere inevitabilmente artificiale, d’altro canto resta qualcosa di assolutamente impalpabile, relegato alla dimensione ludica, quindi parallelo e sospeso rispetto alla realtà storico-sociale.

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Black Mirror ci ha abituati a vedere la tecnologia come risposta effimera ad una esigenza tutta psicologica, in una paradossale rinuncia alla libertà al fine di “sentirsi liberi” (secondo le infinite modalità di un tale sentire). La tecnologia diviene così anche una valvola di sfogo per i più reconditi impulsi alla violenza e soprattutto al dominio. Ecco che quindi l’esigenza di novità, che Infinity in qualche modo assicurava, si ripiega su se stessa e fa i conti con l’impossibilità del desiderio. Viviamo in un’epoca che difficilmente sopporta la paziente e dolorosa fatica del desiderio, perché essa ci mette di fronte ad una mancanza. E la possibilità di un’esplorazione infinita mal si coniuga con l’altra possibilità, immediatamente attualizzabile attraverso la tecnica, del godimento, del tutto e subito. Daly è il massimo rappresentante di questa contraddizione: crea una versione personalizzata e personale (isolata) di Infinity, una versione in tutto e per tutto controllabile e che in quanto tale non deve mai fare i conti con un’autentica e imprevedibile alterità, anche perché, in fondo, lo rispecchia integralmente. La sua vita reale è quella di un sociopatico, di un frustrato, continuamente costretto all’umiliazione, a fare i conti appunto con un’alterità (il mondo intero dal suo punto di vista) che respinge il suo essere naturaliter inadeguato. Nell’impossibilità di affrontare un intero mondo e di trarne godimento, il suo desiderio frustrato si risolve immediatamente in un godimento nevrotico e fanatico all’interno del videogame da lui creato e in cui lui è sovrano indiscusso.

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Un leitmotiv che unisce il primo all’ultimo episodio della stagione è il concepire la massima forma di dominio come potere di produrre sofferenza all’infinito. Cosa ci salva da essa se non fingere, adeguarsi alle regole di una finzione filmica, limitarsi a recitare il proprio ruolo scenico, abortire ogni desiderio di essere qualcos’altro (si legga anche in quest’ottica la rimozione dei genitali, e che poi il desiderio rinasca proprio dall’inaccettabilità di una tale mancanza)? Come uscire dunque da questa malcelata spirale di dolore? In cosa consiste l’atto rivoluzionario?

In Uss Callister si tratta di passare per un aggiornamento, un upgrade che ha le sembianze di un wormhole, con tutto il carico di imprevedibilità di cui è simbolo, e accettando quindi anche la possibilità della morte. Black Mirror non è nuovo ad una riflessione del genere: in una umanità “finita”, in cui ogni soggettività è stata assorbita dall’oggettualità, l’esigenza di in-finito permane nella protrazione indefinita della semplice sopravvivenza. È per questo che l’atto davvero ribelle risiede nella riscoperta e nell’accettazione di quell’errore che la tecnologia non contempla. E le declinazioni di “errore” sono davvero molte: una di queste è appunto la morte. Nanette e il resto dell’equipaggio ne accettano il rischio, la possibilità, e solo questo permette loro di sconfiggere il despota e recuperare la libertà. In altri termini, il Novum è possibile nel momento in cui si rinuncia al permanere nell’infinita finzione per alleviare un’infinita sofferenza e ci si fa, così, carico di un’infinita finitezza.

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La sequenza finale è emblematica: da un lato c’è una Callister rinnovata che, rinchiusa all’interno del gioco procedurale, è pronta a fare esperienza dell’infinito, è libera (anche se deriva la sua libertà dalla possibilità evenemenziale di una integrale rinuncia alla realtà); dall’altro lato c’è un gamer che sfrutta la tecnologia di Infinity per “sentirsi libero”, dar sfogo alle sue pulsioni nere alla violenza e al dominio, illudendosi di essere “the king of space”, sovrano di qualcosa, lo spazio, che è fatto per il 99,9% di vuoto, schiavo della tecnica per illudersi di essere padrone di una realtà inafferrabile.

EPISODIO 2. ARKANGEL

Problema: può l’angoscia permettersi di resistere di fronte all’allettante possibilità di avere tutto sotto controllo? Brooker risponde – tanto per cambiare – “No!” e scrive Arkangel, secondo episodio della stagione diretto da Jodie Foster. L’ambientazione non è quella spiccatamente futuristica e distopica a cui siamo abituati. È un mondo prossimo al nostro, apparentemente non (ancora) dominato dallo sguardo totalitario del Grande Fratello orwelliano, ma che per ora si limita a sperimentarne le potenzialità per il quieto vivere. E così capita che Marie, una madre apprensiva come tante, decida di far impiantare nel cervello della figlia un chip che, connesso ad un tablet, permette di controllarne i movimenti e le azioni. Gli occhi della figlia diventano organi “a disposizione” della madre affinché questa possa tenerla “sott’occhio” in tutti i suoi movimenti e le sue azioni. Il nostro giudizio nei confronti di Marie è impietoso e quando, su consiglio di uno psicologo, si decide a riporre in soffitta il tablet incriminato tutti tiriamo un sospiro di sollievo.

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Ma siamo sicuri di esser così estranei alle ansie di quella madre? Non si tratta del nostro essere o meno genitori, ma dell’essere “apprensivi”. Ora, l’apprensivo non è solo il soggetto ansioso ma, etimologicamente, è anche il soggetto dell’apprendimento nozionistico, in poche parole l’apprensivo è tale in virtù di una pulsionale esigenza di sapere tutto. Possiamo davvero dirci così lontani da una simile condizione, estranei ad un simile bisogno? Beninteso, si tratta di un bisogno connaturato all’uomo, anzi di quel Desiderio che lo ha reso propriamente Uomo. Ma ancora una volta l’azione della tecnologia svuota di senso tale desiderio, e oppone alla fatica e alla pazienza che ad esso si accompagnano la possibilità della fruizione immediata, della visione istantanea, del godimento rapido. Ci dovremmo chiedere quindi: giudichiamo negativamente quella madre apprensiva, ma saremmo in grado di rinunciare ai nostri smartphone e computer, ai reality e ai talent show, ad una connessione ad Internet, a Wikipedia, ai social network, ai film in streaming, alle decine e decine di categorie porno, alle dirette Facebook, alle storie di Instagram, all’accesso ad ogni tipo di informazione scientifica e non, all’app che ci tiene aggiornati su ogni voce di mercato sulla nostra squadra del cuore, alla possibilità di sapere in tempo reale tanto dell’ultimo attentato terroristico a Londra quanto degli interessantissimi sviluppi nella storia d’amore tra il principe Harry e Meghan Markle, o ancora alla possibilità di controllare l’ultimo accesso di qualcuno su Whatsapp? Non si tratta, nel nostro caso, semplicemente di una forma diversa, più maniacale e quindi anche meno conscia di sé, della stessa ossessione, dello stesso voyeurismo ansioso?

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Fin qui nulla dovrebbe stupirci. Ma la sperimentazione “Arkangel” offre anche un ulteriore optional, questo sì raccapricciante. Marie ha infatti la possibilità di agire sulla visione stessa della figlia, offuscandola, “pixelandola”, laddove contenuti eccessivamente scabrosi, spaventosi, violenti, lo richiedano. Qui che si sprigiona il contenuto eminentemente politico della puntata e ritroviamo un 1984 edulcorato. Al posto del volto onnipresente del Grande Fratello abbiamo la premurosa invadenza di una madre come tante, la quale non va vista, appunto, come un tiranno censore ma come simbolo di quell’amore che farebbe tutto ciò che è in suo potere per il benessere della figlia: il motto di “Arkangel” è “Mother will protect you”, ma la madre è “ogni madre”, è cioè il sostrato/grembo culturale in cui nasciamo, quello che si prende cura di noi, che ci protegge e che ci predispone alla sopravvivenza nell’ambiente circostante. La censura della violenza è solo un’esemplificazione di quelle pratiche socio-psico-immunologiche di cui parla Peter Sloterdijk e di cui Globus ha già parlato (su questo leggi La società dell’ecceso ha il suo lato osceno nell’immunologia).

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Per sopravvivere in un sistema chiuso c’è bisogno di un sistema immunitario che pianti paletti simbolico-moralistici. Ora, la novità di questa stagione di Black Mirror è il tentativo di immaginare una pars costruens, vie d’uscita, efficaci o meno che siano, ad un tale sistema e quindi ad un certo schematismo mentale che funga da schermo immunologico. Ma la liberazione passa sempre per (quello che agli occhi della macchina è) un “errore”: la violenza, la trasgressione, la possibilità della morte, un chemioterapico abbattimento delle difese immunitarie. Sara vuole vivere esperienze al di fuori della sua città: per questo mette sottosopra la sua casa alla ricerca del tablet, strumento di controllo divenuto ormai troppo opprimente, e trovatolo si rende conto immediatamente dell’impossibilità di spegnerlo con un semplice click o dell’impossibilità (resa attraverso una mise en abyme) di ritrovare in esso se stessa, il suo volto. Capisce così che l’unica soluzione è romperlo, ma perché si dia tale rottura/cesura essa non può rivolgersi solo allo strumento tecnico in sé, ma anche e soprattutto all’esigenza socio-culturale di sicurezza e controllo che esso rappresenta: per rompere il tablet Sara sa di dover rompere la faccia alla madre. La rivoluzione presuppone sempre un atto di violenza, di rifiuto, nei confronti di una madre che in fondo – ed è questo il problema – ci vuole bene.

EPISODIO 3. CROCODILE

Arrivati al terzo episodio risulta evidente che i finali sono aperti, aperte sono le infinite possibilità, indipendentemente da come poi andrà a finire. Tutto ciò priva buona parte di questa stagione dell’atmosfera claustrofobica che ha quasi sempre caratterizzato la serie fin dai suoi esordi. Atmosfera che invece ritroviamo tra i gelidi paesaggi islandesi di Crocodile, per la gioia di molti, a dire il vero. Fermo restando che si tratta di una bella puntata, girata peraltro molto bene, non basta esaltare la claustrofobia e la messa al bando dell’happy ending per ottenere un buon episodio di Black Mirror: fondamentale è stato sempre il legame della tecnologia con l’uomo, qui ridotto a semplice espediente narrativo, tranquillamente sostituibile e sostanzialmente superfluo. Resta comunque interessante assistere alla messa in scena di uno dei temi più cari a Brooker (si pensi ad esempio all’ultima puntata della prima stagione), quello della pericolosità dei ricordi, o ancor meglio del loro inchiodarci alle nostre responsabilità.

 

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Henri Bergson concepiva la nostra psiche come un cono rovesciato che al suo vertice, e dunque in un unico, minuscolo, punto, si incontra con la realtà esterna, materializzandosi nella puntualità della coscienza, della percezione, della volizione presenti. Il resto del cono è invece la memoria che conserva tutte le immagini del passato ad un livello virtuale, indipendente, autosufficiente (ma non per questo separato, “altro”) rispetto alla coscienza e alla volontà. In altri termini, è inutile cercare di rimuovere un ricordo dalla puntualità materializzante della nostra coscienza, è inutile far finta che essa non sia presente, è illusorio credere di poter cancellare la nostra memoria.

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Qual è l’errore di Mia se non quello di rifiutare una simile concezione? Cancellare il passato, vivere come se non fosse mai successo nulla, perseguire un punto di vista, una certa visione particolaristica che non fa i conti con la totalità della propria esistenza e quindi della propria memoria. E del resto chi sono le sue vittime se non coloro che, in un modo o in un altro, la mettono di fronte al suo passato, alla sua colpa, ai suoi ricordi, insomma a quella “totalità” che tanto difficilmente accettiamo in virtù del suo valore responsabilizzante? Mia, in realtà, non cerca di sottrarsi al sistema come Nanette o Sara nei due episodi precedenti, ma lei non ne è una vittima: ha una famiglia, una bella casa, molti soldi, è un architetto di successo, è felice nel suo mondo, all’interno quindi del sistema. Ma ecco che quest’ultimo viene a bussare alla sua porta per ricordarle, ancora una volta con Sloterdijk, che la post-modernità è l’epoca in cui ci troviamo tutti costantemente sulla “scena del crimine”, tutti connessi, tutti coinvolti, tutti egualmente colpevoli di qualcosa. L’inaudita violenza che si scatena di fronte a una tale presa di coscienza non è la violenza di chi cerca una via d’uscita da un tale universo chiuso ma quella di chi persiste nella convinzione di poter fuggire al proprio passato, alla propria memoria, alla propria responsabilità, di chi si ostina a credere di poter vivere in questo mondo senza rispettarne le regole.


Lorenzo Di Maria è laureato in Filosofia con una tesi sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève. Ha pubblicato articoli per Lo Sguardo e Players.

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