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Ecco perché dobbiamo rivedere il cinema di Vittorio De Sica
25/01/2019|L'EVENTO

Ecco perché dobbiamo rivedere il cinema di Vittorio De Sica

illustrazione di Matteo Sarlo parole di Flavio De Bernardinis

Per gentile concessione dell’autore, un estratto del libro “Vittorio De Sica. L’arte della scena”, di Flavio De Bernardinis, edito da Edizioni Sabinae.
  «Senza De Sica – scriverà nella sua autobiografia la Loren – non sarei mai diventata quello che sono, non avrei mai trovato la mia vera voce. Vittorio De Sica, il più grande creatore di naturalezza del cinema italiano. La sua esperienza di attore e il suo occhio di regista ne facevano un maestro a tutto tondo». Sophia incontra De Sica a Cinecittà, e si sottopone disciplinata a un fuoco di fila di domande: «Mi interrogò dicendo “interessante”, ma in realtà mi osservava con il suo terzo occhio, quello attento a scovare l’attore dietro l’apparenza». Ricapitoliamo brevemente le attrici di De Sica. Lollobrigida è pura fotogenia, immagine di grazia piena e splendente: se De Sica le dice di“volare” in groppa al somaro, in Pane amore e fantasia, lei segue il suo istinto e vola. Mangano intende separarsi dal cliché della ragazza tutta forme ritratta in Riso amaro: ciò che conta è lo studio e l’applicazione, un metodo, qualcosa che unisca la profondità del carattere all’effetto-presenza del corpo. Loren, in una parola, è Napoli, e Napoli è qualcosa che va oltre il rapporto fra essere e sembrare: Napoli, e Sophia Loren, sono l’energia dell’acqua, ossia il mare, la potenza del fuoco, ovvero il vulcano, e il getto di vapore che prorompe dal labirinto dei vicoli e delle strade. Gli elementi della vita sulla terra. Sul set de L’oro di Napoli, così le chiede De Sica: «Recita con tutto il corpo, perfino con le dita dei piedi e delle mani: sono importanti quanto la tua voce, i tuoi occhi, la faccia. Hai già dentro quello che ti serve, fallo uscire. Lasciati andare. Pesa le tue emozioni in quello che hai visto e che hai vissuto». De Sica, il maestro di attori. La parola d’ordine qui è “lasciati andare”: lasciati afferrare daNapoli, e Napoli ti renderà il carico del tuo pieno sentire. Nell’episodio del film che la vede protagonista, Sophia è una “pizzaiola” che dimentica a casa dell’amante il prezioso anello regalatole dal marito. Forse è finito nell’impasto di una delle pizze, si suppone solo per guadagnare tempo. Tutti partono alla ricerca tra i clienti che ultimamente si sono affacciati al banchetto. Lo “spettacolo”, così, è la camminata di Sophia tra i vicoli e le case, camminata che fu “teorizzata”, ossia decisa a tavolino da De Sica stesso: la macchina da presa precede Sophia, inquadrandola leggermente dal basso, scorrendole accanto, mentre lei è una forma che affonda, scivola, quasi nuota tra i vicoli e la pioggia, che in quel momento si stabilisce debba cadere. L’amante riconsegna l’anello, anche se il marito si ricorda di non avergli venduto nessuna pizza quel giorno: ciò che prevale, al solito, è la messa in scena. Tra tutti, Sophia si muove come fosse la città stessa di Napoli che pulsa e sorride, bagnandosi nell’arte di recitare, che è cosa sola con il mestiere di vivere. Nella sua autobiografia, a questo punto, Sophia scrive una cosa molto importante: «A Napoli, alto e basso si mescolano: miseria e nobiltà sono vicini di casa. Intellettuali come Vittorio De Sica e Totò, Eduardo e Peppino De Filippo stavano tra la gente per raccontarla così com’era. E la gente lo capiva». Sono gli stessi pensieri, pronunciati altrove, di un figlio d’arte, Luca De Filippo: «Il grande merito di Eduardo, e tutti gli artisti della sua generazione, De Sica, Totò, Peppino è quello di essere sempre stati vicino alla gente, a aver raccontato la gente: anche per questo, sono degli intellettuali estremamente forti. Qualcuno ha detto che il cinema italiano è morto se gli sceneggiatori, gli autori, non vanno più in autobus, o in tram. Per questo, gli intellettuali erano loro, perché avevano un rapporto forte con le problematiche della gente. Gli intellettuali spesso guardano dall’alto in basso. La gente vuole invece guardarti negli occhi, colloquiare e parlare: essere attiva in una conversazione, anche se critica». Sophia Loren e Luca De Filippo, in circostanze lontane e diverse, dicono così la stessa cosa. Gli intellettuali, quelli veri, sono coloro che sanno gestire una “conversazione critica” con il pubblico, ossia con i cittadini: la forma della conversazione è quella della “commedia”, ovvero la rappresentazione critica dei problemi vivi di una società, in un dato contesto storico. Se la forma è la commedia, allora la figura dell’intellettuale è quella dell’attore: l’attore è colui che rimane al livello della gente, al livello della “rappresentazione”, sguardo interno, perché tale è la materia artistico-espressiva di cui fare esperienza. La cultura italiana, più di ogni altra, sin dalla commedia dell’arte, ha espresso innanzitutto questi intellettuali: ossia gli attori, i quali, una volta osservata dal di dentro, possono così interpretare la realtà all’altezza stessa della realtà. E l’interpretazione può condurre alla drammaturgia e alla regia teatrale, Eduardo, oppure alla regia cinematografica, De Sica: tutte operazioni di scrittura, tutte interpretazioni d’attore e d’autore, per dichiarare, alla fine, anche: “Legislatori, guardate!”
Flavio De Bernardinis è docente di Analisi del linguaggio cinematografico e Storia del cinema presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Ha curato il volume 1970-1976 della Storia del cinema italiano. Tra i suoi saggi Nanni MorettiRobert AltmanL’immagine secondo Kubrick, Arte cinematografica. Il ciclo storico del cinema da Argan a Scorsese
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