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L’ipocondria ai tempi di Google
17/04/2018|L'ANALISI

L’ipocondria ai tempi di Google

L’ipocondria ai tempi di Google
illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Lorenzo Di Maria
Come cambia l’ipocondria con Google? Se già Epicuro argomentava contro la paura del dolore e della morte, l’avvento di Internet è riuscito a trasformare anche un disturbo così ancestrale.

Evidenza:
Ho un linfonodo ingrossato e indolore.

Circostanza:
Ho letto che è un sintomo del linfoma.

Deduzione:
Ho un linfoma.

Logica tremendamente stringente. Sillogismi purissimi, formali sì, ma affilati come lame. L’ipocondria esiste da quando esiste l’uomo. E ne siamo certi, dal momento che già Epicuro non risparmiava argomentazioni contro la paura del dolore e della morte. Si tratta di una vera e propria nevrosi, spesso paralizzante e con risvolti psicosomatici a cui chi non la vive in prima persona fatica a credere. All’ipocondriaco basta una piccola fitta alla bocca della stomaco, dietro lo sterno, perché sviluppi dolori atroci al petto e al braccio sinistro. In mezzo minuto compaiono tutti i sintomi tipici di un infarto, anche se il cuore in realtà funziona benissimo. Che l’ipocondria non sia una condizione esclusiva della modernità e della società del benessere ce lo dicono fonti storiche e letterarie di ogni epoca (si pensi anche solo al Malato immaginario di Molière), ma l’avvento di Internet ha trasformato, tra le altre cose, anche una disturbo così ancestrale.

Cos’è cambiato? Innanzitutto l’accesso alla conoscenza medica. La classica conseguenzialità che collegava in direttissima il sintomo allo sviluppo dell’angoscia, oggi è mediata da conoscenze acquisite tramite una semplice ricerca su Google. Se prima cioè al sintomo non era legata alcuna conoscenza specifica, oggi ognuno di noi è in grado di ricostruire attorno ad un sintomo la sua intera eziologia, l’elenco di tutte le sue possibili cause, patologiche o meno. Dov’è il problema? Come al solito, nella a-criticità di quel tutte. Il problema sta cioè nel considerare Google alla stregua di un dottore anziché come enciclopedia, o detta in altri termini, nel confondere l’enciclopedia medica col medico.

È inutile dire che si tratta di uno dei problemi più gravosi del nostro tempo: dimenticare la qualità, dimenticare la competenza, forti di una quantità illimitata, di una conoscenza potenzialmente infinita, totale. Quante volte ci capita di discutere degli argomenti più disparati con altre persone incontrate casualmente sui social network e di trovarne alcune che ci intimano di informarci meglio? Ma siamo sicuri che un maggior grado di informazione, che qui sottintende quasi esclusivamente un incremento quantitativo, possa garantire, automaticamente, meccanicamente, la correttezza del giudizio? Non si vuole di certo ignorare il valore della conoscenza né denigrare l’importanza di una corretta informazione: si vuole semplicemente mettere in evidenza come l’accesso ad una conoscenza illimitata, garantita dal web, abbia alimentato l’illusione nella possibilità di formulare un giudizio di verità anche senza competenze specifiche, metodologiche, determinando una sostituzione completa della competenza con la conoscenza, come se le informazioni non avessero più bisogno di un principio in grado di organizzarle, di un metodo per ordinarle razionalmente, come se i dati, per il fatto stesso di essere potenzialmente infiniti, non avessero più bisogno di una teoria che li sostanzi. Gli algoritmi di data mining di Google o Facebook funzionano del resto sfruttando questa realtà psicologica e sociologica, come nota Chris Anderson, allora direttore di Wired Magazine, in un noto articolo intitolato non a caso The End of Theory.

Ma torniamo alle nostre ansie. Girovagando sul web, tra i forum che consentono uno scambio di battute con vari specialisti, si nota come la stragrande maggioranza delle interazioni verta sul timore di avere una neoplasia maligna. Non più strane infezioni, virus pericolosi, malattie cardiovascolari di sorta: il nemico numero uno si chiama cancro. Tutti ne abbiamo avuto esperienza, auspicabilmente indiretta, tutti abbiamo avuto una persona cara che ha vissuto questo dramma e che non ce l’ha fatta. Ciò che caratterizza il cancro e lo rende così temibile è la sua indipendenza da agenti estranei: non è grasso che occlude le coronarie, non è un virus che il sistema immunitario non riesce a debellare, sono le nostre stesse cellule che, per motivi spesso sconosciuti, impazziscono. Una locura genetica che inibisce le funzioni organiche e pian piano divora il corpo intero.

La ricerca scientifica, fortunatamente, fa passi da gigante ma è difficile stare dietro ad un’incidenza in forte aumento, indubbiamente legata a quell’errato stile di vita a cui ci costringe il mondo in cui viviamo. Qual è però il presupposto fondamentale, la condizione necessaria, anche se sfortunatamente non sufficiente, perché le cure si rivelino efficaci? Qualsiasi medico, non solo il “dottor Google” risponderebbe “una diagnosi precoce”. Il problema è che questa è il più delle volte impossibile, spesso del tutto casuale, in virtù del fatto che all’inizio i tumori sono pressoché asintomatici. Peggio: hanno sintomi comuni a mille altre malattie. Prendiamo i linfonodi, vero e proprio spauracchio per i cancerofobi, e caso utile per capire il circolo vizioso in cui si ritrovano i molti afflitti da una tale fobia. I linfonodi sono stazioni linfatiche presenti in tutto il corpo in gran quantità. Spesso si gonfiano e si sgonfiano senza che neanche ce ne accorgiamo, e lo fanno per contrastare infezioni e infiammazioni, anche silenti. Inoltre c’è chi è fisiologicamente predisposto ad un ingrossamento dei linfonodi, ci sono casi in cui i linfonodi che si gonfiano in risposta ad un’infezione non sono dolenti, e ci sono anche linfonodi che si ingrossano e restano così per mesi anziché per un paio di settimane. Anche perché, una volta scovati, si fa fatica a non toccarli continuamente, e il contatto non favorisce, anzi rende decisamente più difficoltoso, il processo di sgonfiamento degli stessi. Solo l’1% dei linfonodi ingrossati, duri e indolenti inoltre è riconducibile ad una neoplasia maligna come il linfoma. Eppure possiamo razionalizzare quanto ci pare, ma lasciarsi cullare dalle tenere braccia del dato statistico ci risulta assolutamente vano. Sui siti specialistici queste “rassicurazioni” sono esplicitate ma pressoché ignorate da chi già sente l’ombra dell’ansia stritolargli il petto.

E allora controlli quotidianamente il tuo linfonodo gonfio e indolore, passano i giorni e appuri che sta sempre lì. Ti svegli la notte in preda al panico per controllarlo, e ti ricordi di aver letto che anche le sudorazioni notturne sono un sintomo del linfoma. E dunque: non è che mi sono svegliato perché sudavo? Era l’ansia, il piumone, o il linfoma? E insisti con le ricerche, leggi testimonianze, controlli la distribuzione dell’incidenza per età e ti ritrovi con un lieve innalzamento della curva proprio nella tua fascia. Poi, vogliamo parlare dell’astenia? In un attimo sei la persona più spossata e inappetente del mondo. Ti tranquillizzi pensando agli altri sintomi che invece proprio non quadrano, ma vivi nel terrore costante che compaiano da un momento all’altro.

Alcuni chiarimenti: non si tratta di discutere l’utilità di Internet per quel che riguarda la prevenzione e tantomeno si vuole dare qui un giudizio morale sulle possibilità che Internet ci offre. Questo anche per dire che non necessariamente l’autodiagnosi sarà errata solo perché è autonoma. Dall’altro lato ci sono anche medici, di base e specialisti, che sbagliano e svolgono male, per mancanza di professionalità o per semplice sfortuna, il loro compito. Ciò che però sostanzia la diagnosi del medico e garantisce sulla sua maggior vicinanza alla verità rispetto alle autodiagnosi dei pazienti è esattamente il metodo che quel medico ha acquisito studiando medicina e esercitando per tanti anni quella professione. Il medico, il più delle volte fortunatamente, ti visita accuratamente e ti tranquillizza, benché spesso l’effetto per l’ipocondriaco è sempre insufficiente e solo un’analisi strumentale e specialistica può placare, per un po’, l’irrefrenabile e paradossale impulso a cercarsi la malattia addosso.

Un medico, dopo l’ennesima visita, mi dice: “Devi capire che il corpo umano è fatto per funzionare alla perfezione, finché non ci pensi. Il trucco sta nel non pensare troppo al proprio corpo”. Per un ipocondriaco sono parole che suonano come le raccomandazioni di una madre ad un adolescente, ma ci dicono molto sulla realtà dei fatti. Non si tratta solo di predisposizione all’ansia, di circuiti inconsci alimentati magari da un trauma passato, e non si tratta neanche solo di puro istinto di sopravvivenza. Si tratta prima di tutto di una attenzione riflessa al proprio corpo.

Internet, come ci insegna Byung-Chul Han, è prima ancora che un medium informativo-comunicativo uno strumento di sovra-esposizione. Non mi riferisco solo ad Instagram, parlo soprattutto del ruolo parzialmente isolante che ha assunto a livello intersoggettivo. Una persona sul web non è mai una persona, ma parole che corrispondono ad un volto, ad una certa immagine del proprio corpo. La cura di sé e lo sviluppo delle sloterdijkiane antropotecniche in tal senso ne sono una prova lampante, quotidiana, sotto la luce del sole. Ovviamente la cancerofobia non ha nulla a che fare con l’esigenza di avere un bel viso o belle forme, non ha nulla a che fare con la ricerca della foto profilo più adatta. C’è però un’esigenza comune, quella del tentare di esercitare un controllo sul proprio corpo. L’essere sempre altrove eppure così insistentemente qui del nostro corpo nell’era del digitale spalanca l’abisso psichico della sua ingovernabilità. Il corpo è l’in-conscio, direbbero gli psicanalisti, e mai come oggi avrebbero ragione. Non so cosa accade davvero al mio corpo, non so perché il linfonodo è gonfio, non conosco la condizione reale dei miei organi interni. Google mi dà accesso al tutto ma non al più prossimo, a quel corpo che pure sono e sono costretto ad essere. Le informazioni provenienti da Internet riempiono quel vuoto di coscienza, ma ancor prima e ancor di più ci mettono di fronte ad un vuoto. Come si può uscire illesi, come si fa a non essere angosciati dal pensiero di ciò che si nasconde nelle tenebre abissali di un linfonodo gonfio?


Lorenzo Di Maria è laureato in Filosofia con una tesi sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève. Ha pubblicato articoli per Lo Sguardo e Players.

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