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Il Caso Weinstein: le belle gambe sono sessiste
15/02/2018|L'ANALISI

Il Caso Weinstein: le belle gambe sono sessiste

Il Caso Weinstein: le belle gambe sono sessiste
illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Federica Serafinelli
Il caso Weinstein e la bufera di Hashtag #metoo, #quellavoltache. Un fenomeno che condensa i due grandi aspetti della contemporaneità: il Bio e l’Eccesso.

È  l’autunno del 2017 e i giornali cantano le donne, senza i cavalieri, le armi, gli amori e le cortesie. Solo le audaci imprese, questa volta non di impavidi guerrieri che si battono fieramente per i grandi ideali o per salvare bionde principesse da mostri marini. Sono le audaci imprese delle donne che si salvano da sole, o che almeno cercano un riscatto da quella famosa triade di avance, abusi, molestie, forse troppo volgare per diventare materia di un poema alla corte ferrarese del ‘500, ma di sicuro impatto e ampio seguito sulla società americana ed europea della nostra epoca.

L’Evento
È  lo scorso ottobre e sulle celebri testate giornalistiche del New York Times e del New Yorker il nome di uno dei più famosi e potenti produttori dell’industria cinematografica americana, Harvey Weinstein, irrompe sulla scena mondiale trascinandosi quell’omertoso silenzio ormai squarciato dalle prime denunce di attrici e collaboratrici della società fondata insieme al fratello Bob, la Weinstein Company. A partire da Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie e Asia Agento una roboante polemica aggredisce la mente creatrice della Miramax, il genio del marketing hollywoodiano che nel ‘92 finanziò Tarantino portando nelle sale Le Iene, nonché membro della Oscar Academy, attualmente espulso. La scia di rivelazioni sulla condotta di Weinstein nel modo di intrattenere le attrici durante i suoi casting couch nelle camere d’albergo, dove erano formalmente invitate per essere messe al corrente di progetti che avrebbero dato lustro alle loro carriere o per provare il copione di un nuovo film, ha sgretolato quell’impalcatura che su aggressioni e soprusi aveva edificato l’attuale star system, specie se si considera le testimonianze di donne che parlano di un temibile aut aut in grado di far corrispondere un rifiuto di prestazione sessuale all’estromissione da quel palcoscenico dalle quinte brutali. Così, mentre il caso Weinstein continua a collezionare testimonianze di donne abusate o prese in trappola da questo programmatico sistema di reclutamento, fino ad arrivare ad un numero di oltre 70, la fiction del patriarcato 2.0 coinvolge altre personalità del mondo dello spettacolo in una reazione a catena delle virtù. Tra di esse il protagonista della serie Netflix House of Cards, Kevin Spacey, il regista e sceneggiatore James Tobback, il produttore cinematografico Brett Ratner, gli attori Ben Affleck e Dustin Hoffman.

Una guerra di Hashtag
Dopo ogni scandalo di dimensioni colossali che si rispetti, prende vita, per dirlo alla Gaber, «quel grosso mercato di opinioni concorrenti», si erigono le barricate dei vari radicalismi che si sbizzarriscono alimentando la medesima macchina mediatica, fino a qualche mese fa carnefice delle vittime di soprusi, tra le quali, va ricordato, figurano anche uomini. Poi c’è la bufera degli hashtag che, più di ogni altro veicolo di informazione, formattano la linea di pensiero, l’atteggiamento da assumere, per sussumere la particolarità di ogni violenza sotto le comunitarie e moderne effigi del #meetoo, #quellavoltache, #YoTambien, #balancetonporc, a sua volta criticato perché troppo specista e quindi affiancato al più irreprensibile #moiaussi. C’è chi, come il regista Oliver Stone o l’attrice Lindsay Lohan, prende le difese di Weinstein, chi, come Merylin Streep, dopo anni di collaborazioni con il produttore americano, si dice sorpresa da questa tempesta di denunce, ma senza indugio definisce eroine le attrici che hanno testimoniato la gravità delle esperienze subite.

Perché ora e non prima?
Perché non prima e soprattutto perché in questa modalità seriale, livellante, che troppo spesso non tiene conto del fatto che il corpo del delitto, l’habeas corpus, è uno strumento tanto antico quanto fondamentale nella procedura giuridica, in grado di salvaguardare l’individuo dall’arbitrio dell’accusa. Come mai all’improvviso si esibiscono pubblicamente i retroscena di quella stessa industria cinematografica che ci ha fatto commuovere, esaltare e divertire, mentre per anni il religioso silenzio è dilagato in un eccesso equiparabile al moralismo detonante di questi mesi?

Si può riconoscere la complessità e il terrore di vedersi sola, di fronte ad un potente apparato che avrebbe difeso l’eventuale aguzzino, la paura di poter esser recriminata dall’opinione pubblica perché in fondo quel successo raggiunto si era macchiato di un imprinting che non aveva riscosso una immediata e declamata opposizione da parte della sedicente vittima. Oppure è il caso di utilizzare un fraseologico quale “cavalcare l’onda” che scomposto significherebbe: ho capito il mutamento dei tempi, ho capito che la struttura sociale oggi segue le paradossali logiche dell’esasperazione e, a volte, dell’inversione di colpa e pena, ho capito che la contraddizione oggi è quella di una società che oscilla tra il porno e i supermercati Bio, allora mi butto anche io nella mischia, votando però a surreale castità il pasoliniano «gettare il corpo nella lotta», into the struggle.

Le belle gambe sono sessiste
Di certo la serie di variabili  legate ad ogni circostanza di abuso sessuale, molestia o pura manipolazione psicologica a scapito delle donne, attrici e professioniste che hanno, una dopo l’altra, preso coraggio, sulla scorta dell’esempio delle prime, andrebbero valutate e approfondite nella direzione della specificità del caso. L’atteggiamento di condanna nei confronti di un’aggressione fisica o di uno stupro resta saldo come ideale regolativo. Eppure l’influenza brutale del potere, di una forma storica di imposizione tutta al maschile, può giocare un ruolo rilevante nel governare la sorte e le scelte di una donna. Il biasimo del proverbiale j’accuse  nei confronti di quest’ultima, perché non è stata in grado di opporsi, concede un fluido sconfinamento dalla passività, che l’avrebbe scagionata, un giorno, all’assertività, che la punisce.

La coalizione delle donne sotto un hashtag si confermerebbe allora una cortina di protezione virtuale, per le apolidi di queste nostre società, che hanno cercato di far rimarginare la ferita di un agguato subito, con il più classico dei metodi: il tempo. Ora che, a quanto pare, si è sdoganata la pratica di pubblicizzare la bruttura della cicatrice, perché le belle gambe sono sessiste, come residuo del tempo trascorso, il rischio è di affondare nella palude melmosa che cauterizza le increspature di ogni specifico dolore procurato, di ogni particolare violenza subita e di ogni intenzione iniziale del presunto uomo-aggressore. La caccia alle streghe dilagante non consente di distinguere le tipologie di prevaricazione, di considerarle nelle loro declinazioni. Oltretutto lascia scivolare ogni individuo in una spirale di debolezza pronta a rendere materia di inquisizione qualunque tipo di gesto che vada oltre una formale prossemica tra uomo e donna. Dove inizia la libertà di accostarsi al corpo dell’altro, anche per sussurrare un’intenzione, e dove si approssima il limite per il quale una donna è ancora nella fascia protetta della forza della propria libertà di poter declinare delle avances o assecondarle? L’insicurezza di tale relativismo relazionale si vede progressivamente ampliata da questa fallimentare forma di giustizia pubblica, che affastella fatti in un grande calderone per parlare del miscuglio piuttosto che della particolarità degli ingredienti. Il tentativo di definizione risulta vano e il timore dell’altro o di come quest’ultimo possa percepire un certo atteggiamento innesca una forma paranoide che auspica l’approvazione di un codice comportamentale al quale attenersi.

La prospettiva di una giustizia mediatica, che si compia senza seguire l’iter di un processo è la spia di una degenerazione oclocratica, oltre che di una rimarcata debolezza del singolo a lasciarsi travolgere irrazionalmente dall’impeto della folla. Inoltre, sarebbe vantaggioso anche per i più fieri moralisti del caso riconoscere che il livellamento egualitario del crimine non è garante di una pena equa e così anche la prospettiva di lasciar scivolare le dita su un ginocchio manterrebbe la rilevanza dell’intenzione e le proporzioni dello stupro.


Federica Serafinelli studia Filosofia alla Sapienza. È appassionata di arte, piante esotiche, lunghe passeggiate in luoghi da esplorare e nei quali perdersi.

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