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Realismo capitalista for Dummies
26/04/2018|L'EVENTO

Realismo capitalista for Dummies

Realismo capitalista for Dummies
illustrazione di Chabacolors
parole di Tiziano Cancelli
Il Realismo Capitalista di Fisher è quella forza che richiede la rinuncia preventiva alla vita, la rinuncia preventiva alla fantasia, in cambio di una più funzionale depressione che ci metta però al riparo dal patimento.

Difficile capire di cosa parli Realismo Capitalista (NERO EDITIONS, 2018), ognuno ci vede qualcosa di diverso. Un pò come nella New Age, percorsi spirituali dove la verità è soggettiva e alla fine va bene tutto, basta che ci credi abbastanza. Fisher ha la capacità, in sole 152 pagine, di parlare alla moltitudine: non quella informe e indefinibile che ossessiona le menti dei post-comunisti sulla scia di Toni Negri, ma quella vera, quella che abita le strade, i quartieri, le città. Tutti possono riconoscersi, ritrovarsi e leggersi in quelle 152 pagine. La finezza, la capacità d’analisi anche fredda e a volte implacabile che Fisher mette in campo permette il manifestarsi di quella singolare situazione presente nelle più importanti narrazioni, un dialogo multilaterale, capace di parlare a più i livelli. Ci si rivede il manager, costretto a lavorare h24 al fine di mantenere la sua posizione nella catena alimentare; si rivede il freelance sempre in cerca di visibilità da convertire stipendio per arrivare alla fine del mese; osservano la loro vita, descritta con minuzia di particolari, il macellaio, il commerciante, l’operatore di call center, lo studente, il rider di Deliveroo e tutta quella miriade di figure che cercano di rimanere a galla dopo lo tsnumani della post-modernità, responsabile di aver lasciato un mare pieno di squali e pochissime scialuppe di salvataggio.

Nel caso di Realismo Capitalista forse è più interessante ragionare intorno a ciò di cui questo libro non parla, della narrazione che in esso non ha luogo. Ciò che Fisher non dice, è ciò che fa più rumore. In questo libro non ci sono spiegoni sul perché del tramonto dell’Occidente, non ci sono strane e articolate varianti del complesso di Edipo a spiegarci la realtà, non c’è la narrazione romantica della disillusione, incarnata da Madame Bovary alla finestra mentre spiega i beni posizionali. Non c’è, parimenti, la voce melliflua, mefistotelica e convincente oltre ogni dire, che riecheggia nell’aria ogni qualvolta un’anima viene barattata per una maglietta di Supreme. In Fisher non c’è la rassegnazione, la giustificazione dell’esistente, il razionalismo del capitale finanziario e di quello cognitivo, ma la voce di un disagio esistenziale, di una sofferenza che non ha paura di definirsi tale. C’è la voce dura, fredda, quasi impersonale, tipica di chi vive in prima persona il dramma che va descrivendo. C’è la voce di chi riesce a dire, con la stessa chiarezza e lucidità che contraddistingue la schizofrenia al suo ultimo stadio, questo non è il migliore dei mondi possibili. E non perché esistono ancora la fame, le malattie e le guerre, che nel mentre vanno paradossalmente regredendo, ma perché c’è un cancro, che affligge le menti, i corpi, le anime. Il Capitalismo.

il capitalismo è ciò che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine

Realismo: senso della realtà nella sua concretezza, contrapposto a idealismo, fantasia, illusione. Il realismo capitalista di cui parla Mark Fisher, è quella sensazioni brutta, nauseante, che si ha in fondo allo stomaco, quella sensazione che tutti provano, almeno una volta nella vita. La sensazione che porta a pensarsi come atomi isolati, impotenti, in balia di forze soverchianti, incapaci di creare, incapaci di trasformare e di agire. Questa sensazione è artificiale e artificiosa: è un effetto voluto e ricercato, prerequisito fondamentale al fine di degradare la vita umana fino al punto di poterne disporre senza sforzo, alla stregua di una delle tante materie prime presenti sulla Terra. Essa si accompagna sempre al suo (apparente) opposto, che Byung-Chul Han individua come colonna portante del meccanismo psicopolitico da lui analizzato nell’omonimo libro, il mito del self made man, del famigerato imprenditore di sé stesso. Come spiega Byung-Chul Han, «l’auto-ottimizzazione permanente come tecnica liberale del sé non è altro che una forma più efficace di dominio e sfruttamento. Il soggetto di prestazione neoliberale, come “imprenditore di sé stesso”, sfrutta volontariamente ed entusiasticamente se stesso. Il sé come opera d’arte è una bella, illusoria apparenza che il regime neoliberale mantiene per poterla sfruttare appieno. La tecnica del potere del regime neoliberale ha una forma subdola. Non si impadronisce direttamente dell’individuo: piuttosto, si preoccupa che l’individuo agisca in autonomia su se stesso così da riprodurre in sé il rapporto di dominio, e, di conseguenza, da interpretarlo come libertà.»

 Questo Fisher lo spiega chiaramente, né meglio né peggio di tanti autori che si occupano lo stesso tema; la differenza è che a parlare attraverso le pagine di Realismo Capitalista sono le emozioni, il phatos, quel patire tutto particolare che non è solamente frutto di una grande lucidità a livello teoretico, ma di una sensibilità e di un coinvolgimento fuori dal comune. Su questo Fisher non ha dubbi: il realismo capitalista è quella forza impersonale e minacciosa, dispiegata con massima violenza all’interno delle nostre vite. È quella forza che richiede la rinuncia preventiva alla vita, la rinuncia preventiva alla fantasia, in cambio di una più funzionale depressione che ci metta però al riparo dalla patimento, e quindi dal coinvolgimento con ciò che ci circonda. Quella narrazione particolare che ha la capacità di raccontarsi come eterna, inevitabile e immutabile, pena la fine di tutto ciò che conosciamo. Rivendicando, per dirla con Badiou, di averci «liberato dalle “fatali astrazioni” ispirate dalle ideologie del passato», il realismo capitalista si presenta come uno scudo in grado di proteggerci dai pericoli di qualsiasi ideale o credenza. L’atteggiamento di ironica distanza così tipico del capitalismo postmoderno, dovrebbe immunizzarci dalle seduzioni di ogni fanatismo. Abbassare le nostre aspettative è il piccolo prezzo da pagare per essere messi al sicuro da terrore e totalitarismi, o almeno così ci dicono.

Come parlare quindi di Fisher? Difficile, in particolare perché parlando di Fisher, morto suicida lo scorso anno, parliamo di qualcuno caduto sotto i colpi dello stesso sistema che descrive, una delle tante vittime del conflitto che si combatte sempre di più nelle menti delle persone. Quello stato di ansia «tende a produrre un’oscillazione bipolare: la speranza vagamente messianica che prima o poi qualcosa di nuovo dovrà pur succedere, che scivola nella tetra convinzione che niente di nuovo accadrà mai sul serio», è forse una delle descrizioni più puntuali della vita dell’uomo nel ventunesimo secolo. Nonostante ciò, nelle pagine di Realismo Capitalista leggiamo della forza della rivendicazione, della capacità di ripensare l’esistente, della determinazione a ritrovare e difendere la dimensione emotiva, anche nella sua sfera più impervia e difficile, quella della sofferenza. Le pagine che parlano della necessità di riappropriarsi perfino della malattia mentale, della sua diagnosi e della “cura”:

L’ontologia oggi dominante nega alla malattia mentale ogni possibile origine di natura sociale. Ovviamente, la chimico-biologizzazione dei disturbi mentali è strettamente proporzionale alla loro depoliticizzazione: considerarli alla stregua di problemi chimico-biologici individuali, per il capitalismo è un vantaggio enorme. Innanzitutto, rinforza la spinta del Capitale in direzione di un’individualizzazione atomizzata (sei malato per colpa della chimica del tuo cervello); e poi creano mercato enormemente redditizio per le multinazionali farmaceutiche e i loro prodotti (ti curiamo coi nostri psicofarmaci). Che qualsiasi malattia mentale possa essere rappresentata come un fatto neurologico è chiaro a tutti. Ma questo non ci dice nulla sulle cause.

Fisher invece le cause le conosce, perché le ha sperimentate, come moltissimi altri, sulla sua pelle. Per questo motivo in quel centinaio di pagine avvertiamo la necessità non più rimandabile di rompere la gabbia, la bolla che rinchiude le vite di chi vive al crepuscolo. Non basteranno le tecnologie, nemmeno le più visionarie, a invertire questo processo malato di somatizzazione del reale: c’è bisogno di riscoprire una dimensione viva, esaltante, entusiasmante e soprattuto dolorosa, per imparare, di nuovo, a immaginare il futuro.
«La Libertà – dice Spinoza – può essere conquistata solo nel momento in cui apprendiamo le cause reali delle nostre azioni, solo cioè quando siamo in grado di accantonare le passioni tristi che ci intossicano e ci ipnotizzano».
Sembrerebbe essere fondamentale a questo punto ricominciare a dar credito alla capacità di immaginare, a ciò che i Greci chiamavano eikasìa, la facoltà di rappresentare dinnanzi a sé ciò che non è immediatamente presente ai sensi; al fine di opporre una resistenza a quella forza mortifera coagulata intorno al realismo del capitale. Non a caso è «più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo».

Con uno stile che spazia fra elementi squisitamente pop e filosofie schierate in prima linea (Zizek e Badiou), Fisher riesce a fare i conti con un sentimento di morte diffuso, pur senza soccombergli; è in quel momento che la bolla si rompe. Nel momento in cui si trova il coraggio per rivendicare l’utopia, il sovvertimento e la ri-politicizzazione delle vite degli uomini e delle donne. Un valore, quello di queste vite, impossibile da trovare nei freddi sciami di dati e negli algoritmi, ma che va ricercato nella dimensione fisica ed empatica della relazione con l’altro, nella riscoperta di un legame capace di urlare con la sua stessa esistenza che no, i nostri problemi non sono unicamente contingenti e isolati ma «sono tutti effetti di un’unica causa sistematica: il Capitale».


Tiziano Cancelli è laureato in Filosofia all’università La Sapienza di Roma. Scrive di politica, cultura e nuove tecnologie. Frequenta il master di secondo livello Big Data, innovazioni, regole, persone. Ascolta Black Metal e sta ancora cercando la pietra filosofale.

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