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02/08/2018|L'EVENTO

«Romanzi»

Leonard Cohen

prima di salire sulla torre della

canzone

illustrazione di Simona Bramucci parole di Pierluigi Lucadei


Queste pagine sono una lunga immersione in un mondo che conosciamo bene, perché l’abbiamo sentito cantare e l’abbiamo cantato. Queste pagine sono profetiche e sacre, nessuna parola è dispersa, anche se ognuna di esse sembra tacere nell’attesa di un canto che non ritorna. L’eco della musica è finita. La voce è morta e la torre della canzone è crollata. Ma in queste seicento pagine è come se tutto respirasse. Un respiro dispnoico, confuso, ma pur sempre un respiro. Perché mentre la quotidianità ci inquina, la parola poetica ci salva. Anche se è una parola fuori dal coro. Soprattutto se è una parola scagliata contro chi è convinto di possedere assolute verità. Alle latitudini di Leonard Cohen viene praticato il culto del dubbio e di assoluto c’è soltanto la bellezza. Prima di pubblicare il suo esordio discografico (Songs of Leonard Cohen, 1967) e dunque prima di diventare uno dei più grandi cantautori di tutti i tempi – se scrivessimo il più grande, in realtà, non ci sarebbe nulla da eccepire – Leonard Cohen aveva già pubblicato diversi libri di poesie e si era cimentato con la narrativa con due prove sulla lunga distanza, che ora minimum fax raccoglie in un unico volume, Romanzi (pagine 579; prezzo 18,00 euro). Che fosse un poeta prestato alla canzone è cosa nota, i suoi versi per cinquant’anni hanno dato una dignità nuova ad un genere troppo spesso considerato basso e di serie B rispetto alla vera letteratura. Per Suzanne, Sisters of Mercy, Famous Blue Raincoat, Hallelujah qualcuno poteva forse usare il termine canzonette? Tale era la densità lirica delle sue strofe e dei suoi ritornelli che, dopo Leonard Cohen, è come se ogni altro songwriter sia stato sollevato dalla responsabilità di dimostrare di essere anche un poeta. L’adagio popolare dice anche che qualsiasi autore di canzoni darebbe tutto il proprio canzoniere in cambio di un solo verso di Leonard Cohen. Kurt Cobain, in uno dei suoi brani più famosi, cantava give me a Leonard Cohen afterworld/so I can sigh eternally (dammi un aldilà alla Leonard Cohen/così che io possa sospirare in eterno)”. Quello che forse non tutti sanno è che Cohen era anche un superbo narratore e i suoi due romanzi sono lì a dimostrarlo. Molto diversi tra loro, Il gioco preferito (1963) e Beautiful Losers (1967) contengono temi ed atmosfere che l’appassionato non faticherà a riconoscere perché sono gli stessi temi e le stesse atmosfere che qualche anno più tardi sarebbero finiti dentro le canzoni di Cohen. Amore, odio, morte, sensualità, tradimento, decadenza, ricerca ostinata della bellezza: la poetica dell’autore di Hallelujah inizia anche dalle sue pagine narrative, dagli slanci emotivi delle sue perdizioni prosaiche. Il suo è stato un apprendistato talmente lungo, travagliato e compiuto che, quando ha deciso di prendere i versi che gli ronzavano in testa da anni e farne delle canzoni, ciò che ha registrato è stato semplicemente perfetto. Il gioco preferito è un romanzo di formazione, una sorta di ritratto dell’artista da giovane o Giovane Holden canadese, romanzo in cui Cohen ha riversato la sua biografia facendone strabordante materia narrativa. È una storia di turbamenti sullo sfondo di una Montreal post-bellica prima e di una New York scintillante poi: l’alter ego Lawrence Breavman disegna, tra la morte del padre, la malattia della madre, il rapporto conflittuale con la cultura ebraica, gli esperimenti letterari, l’amore per le donne, una credibile parabola di sacrificio in nome della poesia. Ne viene fuori un libro ricco di disperazione e umorismo, ovvero la quintessenza di tutte le migliori ballate del cantautore canadese. Beautiful Losers è invece un romanzo sregolato, ipnotico, quasi beat. Figlio della libertà creativa degli anni Sessanta. È un susseguirsi di visioni e ricordi, di incursioni poetiche nell’inconscio e di turbolenze erotiche degne del Kerouac più elettrico. Il racconto ruota attorno a quattro personaggi, il narratore, la sua defunta moglie Edith, il suo amico F. che aveva sedotto Edith, e Catherine Tekakwhita, una nativa americana vissuta nel Seicento e proclamata santa. Privo di una trama, Beautiful Losers assomiglia ad un lungo e vorticoso flusso di coscienza, in cui ci si può perdere e ritrovare innumerevoli volte, spesso nel breve spazio di due o tre pagine; un flusso che nasconde schegge impazzite di bellezza, odi alla vita prive di freni inibitori, fotografie allucinate dell’epoca in cui è stato scritto. Lo stesso Cohen a suo tempo aveva avvertito di maneggiare il libro con cura e autorizzava addirittura a saltare le pagine non gradite, consigliando al contempo di lasciarsi andare ad una prosa jazzistica venuta fuori come “un colpo di sole”. Il gioco preferito e Beautiful Losers sono romanzi necessari per decifrare meglio l’universo coheniano, per scoprire l’uomo prima che si accorgesse che dilungarsi con le parole gli causava qualcosa di simile al terrore e sviluppasse un’autentica ossessione per la brevità, prima insomma che salisse sulla tower of song e si facesse mito.
Pierluigi Lucadei ha pubblicato Ascolti d’autore (Galaad, 2014), Letture d’autore (Galaad, 2016), Colapesce. Maledetto italiano (Arcana 2018). Scrive di libri, dischi, tennis e altre cose belle su Il Mucchio Selvaggio, Minima & Moralia, Rivista Undici, Il Mascalzone.
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