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La Forma dell’Orecchio e l’Anima di Aristotele
29/03/2018|L'ANALISI

La Forma dell’Orecchio e l’Anima di Aristotele

La Forma dell’Orecchio e l’Anima di Aristotele
illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Lorenzo Di Maria
Una recente ricerca dell’Università di Montreal chiarisce come la forma dell’orecchio determina quello che sentiamo. Aristotele ragionava così già molto tempo fa. Riflettendo non solo sulle cause meccaniche ma anche su quelle finali

Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Sbagliato. Perché oltre che dalla nostra volontà, tutto dipende dalla forma del nostro orecchio. Lo dice uno studio pubblicato di recente sul Journal of Neuroscience. La ricerca, condotta all’Università di Montreal, si è posta l’obiettivo di chiarire come l’uomo sia in grado di percepire la provenienza di un suono, di come sia in grado di ricostruire il mondo circostante attraverso l’udito. Sì, perché spesso diamo per scontata tale capacità, e di fronte al monopolio assoluto della vista, gli altri sensi – fondamentali nel resto del mondo animale – passano in secondo piano. Ma anche l’orecchio vuole la sua parte.

Torniamo dunque alla nostra ricerca. Non è certo difficile spiegare come facciamo a sapere che un suono provenga dalla nostra destra anziché da sinistra: semplicemente l’onda sonora ha raggiunto l’orecchio destro una frazione di secondo prima del sinistro. Fin qui insomma nessun problema. Ma come facciamo a sapere, per esempio, che un piccione sta tubando proprio sul cornicione sopra di noi? Non abbiamo un orecchio “di sopra” investito dall’onda sonora prima dell’orecchio “di sotto”. Qui entrano in gioco i padiglioni auricolari, che evidentemente non stanno lì solo per abbellire i nostri volti. Le affascinanti tortuosità che lo caratterizzano fanno sì che il suono, arrivato sotto forma di onda, rimbalzi colpendo infine il timpano in un certo modo del tutto peculiare, secondo una precisa inclinazione. L’informazione così ottenuta sarà elaborata dal cervello che in questo modo sarà in grado di individuare la provenienza del suono, di capire cioè che c’è un piccione che tuba proprio sopra la mia testa, e che quindi forse mi conviene spostarmi.

Tutto dipende da questo rimbalzo. Tutto dipende dalla forma perfetta dei nostri padiglioni auricolari. L’esperimento ha infatti dimostrato che un suono proveniente da uno stesso punto viene correttamente localizzato in condizioni normali, mentre tale capacità viene meno nel momento in cui ai volontari viene applicata una protesi in silicone che va a modificare la morfologia delle loro orecchie: il suono non rimbalza più allo stesso modo, non colpisce più il timpano allo stesso modo, e l’informazione che ne deriva non può più essere processata allo stesso modo da un cervello “abituato” diversamente. A livello cerebrale, infatti, è osservabile come la localizzazione di suoni in condizioni normali sia connessa a patterns riconoscibili nel comportamento dei neuroni. Coi tappi di silicone invece ogni schema salta e i neuroni sembrano impazzire. Sembra qui affermarsi una sorta di concezione aristotelica dell’evoluzionismo. Aristotele certo non conosceva i meccanismi biologici della selezione naturale ma lo Stagirita ha in comune con Charles Darwin l’attenzione non solo alle cause meccaniche, quelle per cui ad A segue sempre, soltanto e comunque B, ma anche e soprattutto a quelle finali, cioè ad una spiegazione del mondo vivente fondata su un principio naturale, inscritto nelle cose e che ne regola il funzionamento, che anima quello stesso meccanicismo, che applica un perché al mero come.

Ora, il finalismo aristotelico è il baluardo del creazionismo, laddove ancora oggi l’argomento teologico del disegno divino, ossia di quel disegno intelligente che deve stare dietro la complessità del cosmo e della vita, tiene ancora banco. Ma si tratta qui di un aristotelismo travisato dal genio di Tommaso d’Aquino. Il finalismo aristotelico infatti, esattamente come l’evoluzionismo darwiniano, pone quel “fine” all’interno delle cose stesse, come qualcosa del tutto immanente al loro essere, corrispondente alla loro natura e che è principio del loro funzionamento e del loro divenire, del loro organizzarsi per vivere.

L’anima: Aristotele la definiva forma perfetta o atto primo di un corpo che ha la vita in potenza, ovvero che sia strumentalmente disposto alla vita. Essa cioè non è un principio trascendente, separato dal corpo, come lo era per Platone, e in fondo come lo sarà per tutta la teologia cristiana. La filosofia analitica della seconda metà del secolo scorso, ma già il peripatetico Alessandro di Afrodisia all’alba del III secolo d.C., chiariscono che per Aristotele non sussisteva alcun dualismo mente-corpo: l’anima è semplicemente il nome che diamo a quell’organizzazione che ci permette di concepire quell’ammasso di materia organica come un organismo. Non è quindi un principio di funzionamento miracolosamente aggiunto ad un corpo altrimenti inerme, è qualcosa di intrinseco ed immanente al corpo stesso nel suo stesso svilupparsi. L’anima esprime cioè quella unità che è superiore alla somma delle singole parti, il funzionamento del tutto in quanto tutto, un funzionamento che non può essere dedotto da un singolo organo preso per se stesso, benché esso sia potenzialmente perfetto per svolgere quella funzione in un organismo vivente. Il nostro stomaco è fatto così proprio perché solo così può svolgere la sua funzione digestiva. L’anima rappresenta esattamente quella organizzazione perfetta, quella specifica funzione che lo stomaco andrà a svolgere in un corpo umano. Gli esseri viventi, così come ogni sostanza composta, sono per Aristotele un sinolo di materia e forma, l’unità indissolubile del corpo e del principio intrinseco del suo funzionamento: non si può (e non si deve) concepire l’una cosa senza l’altra.

Torniamo all’orecchio. Secondo questa prospettiva possiamo dire che esso possiede una facoltà uditiva, nello specifico la facoltà di localizzare suoni provenienti da ogni direzione, grazie alla sua forma, alla forma del padiglione auricolare, perfettamente adatto a svolgere quella funzione. Una funzione che poi si esplica nell’organizzazione generale dell’organismo umano, Aristotele direbbe attraverso l’anima sensitiva, ovvero nella connessione intima che sussiste tra la forma dell’orecchio, il timpano e i patterns neuronali individuati con la fMRI dai neuroscienziati di Montreal. L’anima aristotelica insomma esprime una perfezione, è la più atavica delle spiegazioni che diamo di fronte alla meraviglia suscitata dall’organismo vivente, dalla constatazione che in esso ogni cosa è “al suo posto”, che ogni minima parte è lì “non a caso”, che tutto sembra “fatto apposta per”.

Eppure c’è un “ma”. Il finalismo ilemorfico aristotelico è un buon modo, benché sicuramente ante litteram, per liberare la biologia dalla rigidità meccanicistica, per pensare un tutto che rappresenta l’organizzazione delle singole parti e dunque il loro funzionamento. Questo tutto però è semplicemente l’atto che realizza ciò che è già in potenza in quelle parti. È una totalità del tutto immanente alle cose stesse, ritagliata sul loro stesso contorno, perfettamente aderente e congruente. Insomma, per Aristotele non c’è, come invece c’è nell’evoluzionismo darwiniano, un tutto funzionale che resta in qualche modo tale anche al di là delle singole parti. Eccoci arrivati al cuore della questione, al “ma”. Torniamo dunque all’università di Montreal, dove avevamo lasciato le nostre cavie coi tappi nelle orecchie. Appurata la tempesta neuronale, immagine biologica della compromissione di una capacità sensoriale tanto sviluppata, gli studiosi chiedono ai volontari che hanno partecipato all’esperimento di tenere le protesi in silicone per una settimana. Ed ecco la scoperta davvero sensazionale: tornati nella cupola sonora e passati al vaglio della risonanza magnetica funzionale per immagini, la capacità di localizzare i suoni era stata quasi del tutto recuperata. La tempesta neuronale era tornata alla sua quiete geometrica, il cervello si era adattato alla “nuova” forma delle orecchie registrando progressivamente le modificazioni nel rimbalzo dell’onda sonora.

Siamo di fronte ad un caso perfetto di adattamento. Una facoltà sensibile, utile per la conservazione della vita, si è preservata come tale anche al di là di una modificazione imposta al corpo dall’ambiente esterno (nel nostro caso dall’arbitrio degli scienziati). Quasi come se quella funzionalità non si corrompesse affatto, com’è invece per Aristotele, con la “corruzione” del corpo. In questo caso, l’aristotelica anima sensitiva sembra davvero qualcosa di separato come non mai dall’organo di cui esprime la funzione. Una separatezza però che non ci riporta al dualismo mente-corpo ma solo ad un mirabolante ribaltamento della dottrina aristotelica: è come se la potenzialità appartenesse più alla mente che alla ferma materia corporea che costituisce gli organi di senso. L’adattamento risiede infatti nella capacità tutta neuronale di adeguare certi patterns di comportamento “abituali” a nuove situazioni, come se il cervello avesse la capacità di riconoscere in un nuovo tipo di informazioni provenienti dal corpo le stesse regolarità (ma traslate) presenti nelle informazioni abituali, e riformuli quindi le sinapsi in funzione delle nuove informazioni ma in maniera del tutto analoga ai processi messi in atto con le vecchie. Se insomma in Aristotele la funzione (animale) ha una preminenza logica e ontologica rispetto all’organo, qui risulta chiaro come la funzione (cerebrale) abbia in realtà una priorità biologica e neurologica rispetto all’organo. In altri termini, nell’evoluzione ciò che conta davvero è il cervello, la sua capacità di riorganizzarsi per far fronte ad ogni modificazione corporea e quasi dialogando con essa, per “conoscerla meglio”, la sua capacità di restare sempre uguale a se stesso al fine di garantire il corretto funzionamento dell’organismo, la sua capacità di adattare le proprie abitudini a nuove circostanze. Saper ricollocare il passato nel presente nonostante le trasformazioni, o meglio sempre in funzione di esse. La nostra morale e la politica avrebbero molto da imparare dal nostro cervello.


Lorenzo Di Maria è laureato in Filosofia con una tesi sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève. Ha pubblicato articoli per Lo Sguardo e Players.

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