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L’orda digitale
11/12/2018|L'ANALISI

L’orda digitale

L’orda digitale

illustrazione di Simona Bramucci
parole di Lorenzo Di Maria

Data mining, web e social networks attraverso Psicologia delle masse di Freud e Psicologia delle folle di Gustave Le Bon.

Anno 1921. Si è da pochi anni conclusa la drammatica esperienza della Grande Guerra. L’Europa cercava faticosamente di ripartire e la mancanza di certezze e soluzioni spalancherà la strada all’insorgere dei regimi totalitari. Ancor prima dell’ascesa di Mussolini in Italia, certe dinamiche inscritte nell’opinione pubblica erano già oggetto di discussione nell’ambiente intellettuale dell’epoca. E così, in quell’anno, esce un classico del pensiero occidentale contemporaneo: Psicologia delle masse e analisi dell’Io.
Quanto è lontano quel 1921 da oggi?

Freud, pronti via
Siamo solo all’introduzione dell’opera, e pronti via Freud afferma che la psicologia individuale non esiste, o meglio che non esisterebbe come indipendente da una precedente, “più originaria”, psicologia sociale. Questo perché «nella vita psichica del singolo l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico». Per Freud cioè non esiste una soggettività residuale, quella del Cogito cartesiano, coincidente cioè con la nostra Ragione. La rivoluzione della psicanalisi ci dice che, anche al fondo della nostra autocoscienza, esiste sempre un’alterità, una più o meno sottaciuta e latente relazionalità. E si tratta di una alterità tanto intrasoggettiva (si pensi ad Io, Super-Io, ed Es) quanto intersoggettiva (si pensi all’importanza che nel processo di formazione del soggetto assumono gli altri – a partire dalla madre –, altri regolarmente presenti, appunto, come oggetti o modelli, amici e nemici). Questa matrice “immediatamente” sociale, relazionale, dell’individuo, assume un’evidenza lapalissiana all’interno del cosiddetto web 2.0. Qui l’individuo inteso solipsisticamente è impossibile. La rete, come la tela di un ragno, ci imbriglia in un fitto sistema relazionale.

Disindividualizzazione
La questione è cruciale. La tentazione banalizzante (e sicuramente legittima), nonché la strada più battuta, è quella di vedere nei social networks il trionfo di una prospettiva ultra-individualistica. Ognuno di noi ha aperto un account su Facebook, Instagram, Twitter. Ognuno di noi si è descritto, ha scelto un’immagine del profilo, ha iniziato a postare foto di tramonti e video di gattini, condividere articoli interessanti, ritwittare dichiarazioni di politici, scrivere lunghissimi post che leggono in tre, cliccare su quel tasto “mi piace” milioni di volte. Il “mio” profilo è il racconto della “mia” vita. E facciamo di tutto perché sia unica. Personalizzare è dunque l’imperativo dei social networks. Il punto però è che una tale personalizzazione non fa che rovesciarsi continuamente in una disindividualizzazione. Più ci descriviamo, attraverso i post e i likes, più Internet ci conosce, e più Internet ci conosce più l’algoritmo che gestisce i social proporrà ad ognuno di noi contenuti e relazioni corrispondenti al nostro idealtipo antropologico, di “consumatore” travestito da “utente”. Così a me compariranno pubblicità di chitarre, a qualcun altro di macchinette fotografiche, ad altri ancora promozioni per andare all’Olimpico a vedere la Roma. Inoltre, il News Feed di Facebook mi proporrà i post di una cerchia ristretta dei miei amici e solo di alcune delle pagine che seguo, selezionati dall’algoritmo per rispondere al meglio alle esigenze e preferenze che io avrei espresso (il condizionale è d’obbligo) attraverso i miei comportamenti digitali. La rete sono io

La rete di relazioni che su Internet crediamo di costruire attivamente, soggettivamente, in realtà ci viene, di fatto, imposta dall’algoritmo. Ma chi c’è dietro questo algoritmo? Tralasciando complottismi e poteri forti, dietro l’algoritmo ci sono ancora io, ma inquadrato da un punto di vista diverso. Il filosofo sudcoreano naturalizzato tedesco Byung-Chul Han nel suo Psicopolitica sostiene che Internet e i suoi algoritmi siano un medium in grado di rivelare un qualcosa di a noi inconscio o in certa misura rimosso. Altri medium di questo tipo sono stati appunto la psicanalisi per l’inconscio pulsionale e il montaggio cinematografico per l’inconscio ottico. Il cosiddetto data mining, lo scavare nelle tracce che lasciamo continuamente sul web, «rende visibili modelli di comportamento collettivi dei quali, come singoli, non siamo mai consci». La personalizzazione sui social si rivela dunque una disindividualizzazione proprio perché permette al nostro inconscio collettivo di venire a galla. Eccoci quindi giunta ad una psicologia sociale delle masse.

Masse = Big Bubbles
I social sono pieni di masse. Solo che, dal 2011, anno di pubblicazione dell’illuminante testo del cyberattivista Eli Pariser, le chiamiamo “Filter Bubbles”, bolle di filtro. E per descrivere queste ultime, il testo di Freud e i suoi riferimenti teorici si rivelano perfetti. Il fondatore della psicanalisi, non avendo Facebook, prende le mosse da un libro che definisce “meritatamente famoso”. Si tratta di Psicologia delle folle di Gustave Le Bon. Le Bon parla della massa come di un’anima collettiva, e aggiunge: «Tale anima li fa sentire, pensare e agire [stiamo parlando di coloro che la costituiscono] in un modo del tutto diverso da come ciascuno di loro – isolatamente – sentirebbe, penserebbe e agirebbe. Certe idee, certi sentimenti nascono e si trasformano in atti soltanto negli individui costituenti una massa».

Le parole chiave del Web
Diamo uno sguardo al nostro mondo digitale. Agli albori dell’era di Internet, molti sociologi, filosofi e politologi, videro (e continuano a vedere) nel nuovo medium una straordinaria possibilità per lo sviluppo della democrazia. Internet metteva in connessione persone, quindi rivendicazioni e istanze provenienti direttamente dalla società civile, offriva la possibilità di un controllo bidirezionale e le sue parole d’ordine erano e sono tuttora trasparenza, digitalizzazione dei servizi, informazione libera, interazione, orizzontalità. Il sogno cyberdemocratico prevedeva quindi un ampliamento della partecipazione politica attraverso Internet, non solo in termini puramente numerici e quantitativi ma anche in senso qualitativo: Internet offriva la possibilità di realizzare quel paradigma deliberativista, tanto caro a Jurgen Habermas, per cui i processi democratici non sarebbero più limitati all’elezione dei rappresentanti ma si produrrebbero direttamente all’interno della società civile attraverso un dialogo tra le parti costantemente illuminato dalla “forza del miglior argomento”. L’etica habermasiana del discorso o del dialogo rappresenterebbe così, nell’ottica freudiana, il massimo grado di rinuncia civilizzante ai moti pulsionali.

Qualcosa non ha funzionato
Cosa è andato storto? Il punto è che su Internet l’interconnessione c’era ma mancava un tavolo per le trattative, e l’autorevolezza – per così dire – di quel tavolo. Internet avvicina persone, favorisce lo scambio, ma permette anche di scavalcare i paletti della civiltà, e dunque della razionalità, su cui si fonderebbe una democrazia deliberativa. Lo capiamo bene se prendiamo l’esperienza tipica su Twitter. Creiamo il nostro account ed entriamo per la prima volta su Twitter. Siamo spaesati. Leggiamo in alto “Inizia a seguire” e sotto una serie di proposte. C’è Matteo Salvini, Laura Boldrini, ma anche gli account dell’As Roma o dell’Fc Internazionale. Facciamo finta che non ci interessi il calcio e iniziamo a seguire i due politici. Io, più vicino alle idee dell’uno piuttosto che dell’altro politico, decido di seguirli entrambi partendo dall’assunto “razionale” per cui è bene conoscere l’intero ventaglio di opinioni, linee e argomenti politici, ma soprattutto credendo nelle possibilità dialogico-argomentative pur offerte, almeno in astratto, dal mezzo. Insomma, parto con le migliori intenzioni, le più “democratiche”. Leggo un post di Salvini sull’immigrazione. Decido di commentare e scrivo che, secondo me, sbaglia per i motivi a, b e c. Subisco inevitabilmente una shitstorm da hooligans leghisti. In compenso, i passanti digitali che la pensano come me e riconoscono le ragioni del mio argomento iniziano a riempirmi di cuoricini, a ritwittarmi e a seguirmi. E io seguo loro. In breve l’algoritmo di Twitter capisce che a) mi interessa la politica, b) sono sensibile al tema dell’immigrazione, c) le mie opinioni personali sono affini a quelle di una determinata fazione politica. Il data mining così operato fa sì che da quel momento in poi sul mio News Feed apparirà molto più spesso la Boldrini che Salvini (o viceversa), molto più spesso post indicizzati con hashtag afferenti all’area politica corrispondente, e i suggerimenti su chi seguire si adegueranno di conseguenza. Senza che io me ne accorga sono parte di una bolla “ideologica” in cui le mie opinioni più o meno giuste, più o meno razionali, sicuramente personali, sono le stesse di tanti altri con cui Twitter mi suggerisce di interagire. La sfera pubblica, aperta, si rinchiude in quelle che in gergo vengono chiamate echo chambers, “stanze” digitali (e senza pareti) in cui la propria voce trova appunto una eco in quella di altri e viene in questo modo assecondata e amplificata. La radicalizzazione che ne segue è all’origine di quella polarizzazione per cui non esiste più dialogo ma solo divisione manichea del mondo in buoni e cattivi, modelli e oggetti, amici e nemici, in perenne lotta tra loro. E ci si abbandona facilmente al “blastaggio” e alle offese, da una parte e dall’altra, ai meccanismi libidici di amore ed odio.

L’io Virtuale
Si è dunque così ricreata la dinamica tipica delle masse, quella fondata, come diceva Le Bon, su tre cause. 1) L’individuo in massa acquista, per il solo fatto del numero, un sentimento di invincibilità e un anonimato deresponsabilizzante, legittimazioni all’allentamento dei freni inibitori che opponiamo alle pulsioni. Da qui gli haters, le shitstorm, il cyber-bullismo, ecc. 2) Il reciproco contagio mentale fa sì che l’individuo arrivi a sacrificare molto facilmente il proprio interesse personale all’interesse collettivo. È quello che oggi chiamiamo “effetto echo chambers”. 3) L’individuo in massa è suggestionabile, esattamente come l’ipnotizzato nelle mani dell’ipnotizzatore, con in più l’effetto del contagio reciproco: «la personalità cosciente è svanita, la volontà e il discernimento aboliti. Sentimenti e pensieri vengono orientati nella direzione voluta dall’ipnotizzatore. Tale è pressappoco la condizione dell’individuo che faccia parte di una massa. Non è più consapevole di quel che fa». Si pensi alle raffinatissime strategie comunicative del marketing digitale. Ma il punto qui è cruciale: come lo stato d’ipnosi, anche quello di massificazione implica una eteronomia della volontà.

Chi ha saputo cogliere questi aspetti prima e meglio di altri è Slavoj Zizek, in un articolo del 2006 intitolato Is this digital democracy, or a new tyranny of cyberspace? Zizek non parla di masse che si ricreano sui social networks (peraltro ancora agli albori della loro storia), ma intuisce alla perfezione la dinamica di trasfigurazione del soggetto in Internet. Da un lato, sembra che il nostro Io reale sia sempre qualcosa di più della nostra immagine virtuale, della nostra cyberidentità: la nostra immagine del profilo è un chiaro tentativo di mascherare in ogni modo i nostri difetti e con essi le nostre peculiarità. Ma non è solo questione di immagini del profilo: il nostro modo di porci sui social, in immagini e parole, si perde sempre qualcosa del Sé reale, esterno, e della sua autenticità complessa. Il black mirror in cui ci specchiamo ad ogni ora del giorno è sempre parziale, rotto, distorto (in meglio). Su Facebook, secondo Zizek, ci siamo noi ma solo nello stesso modo in cui c’è del caffè anche in quella tazzina riempita di caffè decaffeinato. L’Io che agisce in Internet è dunque un Io privato della sostanza, di ciò che gli dà senso, di ciò che lo caratterizza più autenticamente: un Io decaffeinato.

Il gioco
Questo mascheramento non fa altro che riproporre una dinamica prettamente sociale, quella repressiva all’origine del disagio nella civiltà. Qual è la cifra che distingue la relazionalità digitale da quella comune, tipica del mondo esterno? La stessa che distingue una comune relazione sociale da quella tipica delle masse. Zizek afferma che se da un lato l’Io sul web viene depotenziato perché privato della sua sostanzialità, dall’altro esso è “molto più” di ciò che risulta essere nel mondo esterno. E questo perché in Internet sono sospese quelle norme che regolano i nostri scambi “reali” e le nostre pulsioni represse, le attitudini più oscure e recondite, trovano un modo per riemergere e sfogarsi. È interessante notare che, secondo Zizek, questo avvenga in funzione di quel “gioco” che è il digitale. E attraverso il gioco ritroviamo Freud.

Esso prevede innanzitutto una sospensione della “serietà” del reale. In secondo luogo, prevede l’assunzione di ruoli ben determinati, la possibilità di indossare una maschera non necessariamente repressiva e limitante ma anzi, per certi versi, più autentica: più che una maschera, un aspetto del proprio Sé, una faccia della nostra identità psichica, il nostro dark side. E così in quel gioco di ruolo senza regole che è il social network dal momento in cui predispone, facilita e genera algoritmicamente una massificazione, pulsioni inconsce tornano a vedere la luce, ogni atteggiamento critico-razionale è reso vano e ognuno di noi inizia a comportarsi propriamente in-civilmente. Le Bon, citato da Freud, sintetizza così: «Annullamento della personalità cosciente, predominio della personalità inconscia, orientamento, determinato dalla suggestione e dal contagio, dei sentimenti e delle idee in un unico senso, tendenza a trasformare immediatamente in atti le idee suggerite, tali sono i principali caratteri dell’individuo in una massa. Egli non è più se stesso, ma un automa, incapace di esser guidato dalla propria volontà».

Ma cos’è che ci renderebbe automi pur nella liberalizzazione pulsionale? Perché – per citare un articolo di Rocco Ronchi pubblicato di recente su DoppioZero – la libertà della volontà a prescindere dalla ragione, dal bene, dal proprio interesse, non è un’autentica libertà, intesa come valore politico e democratico? Perché, direbbe Freud, nella massa l’unico davvero libero e autosufficiente, padrone assoluto del suo Io, delle sue pulsioni, e unico quindi in grado di esser giudice di se stesso e dei suoi interessi, è il capo. Il superuomo nietzscheano, scrive Freud, si manifesta sulla Terra per la prima volta nell’orda primordiale e corrisponde alla sua guida, l’Urvater, il padre primigenio. Il capo è anche sempre la testa (pensante) di un corpo libidinoso che solo ad essa fa riferimento. La massa quindi sarebbe deresponsabilizzata ma insieme automizzata, resa automa, perché, alla fin fine, “ci pensa il capo”. O il Duce. O il Capitano. E così via.

Masse Vs Movimenti
Per parlare dell’orda, Freud prende le mosse dal concetto di identificazione: «la massa – scrive – può insorgere in rapporto a qualsiasi aspetto posseduto in comune – e in precedenza non percepito – con una persona che non è oggetto delle pulsioni sessuali. Quanto più significativo è tale aspetto posseduto in comune, tanto più riuscita deve poter divenire quest’identificazione parziale, così da corrispondere all’inizio di un nuovo legame». Questa identificazione è parziale in quanto si tratta di una orizzontalità che sempre presuppone una verticalità. Non c’è massa senza capo, perché in origine non c’era orda senza padre primigenio. E la libido degli individui che vanno a comporre una massa continuerebbe ad esser completamente soffocata se non trovasse in quel padre/capo un modello in cui (verticalità) e attraverso cui (orizzontalità) identificarsi.

Questo accadeva e accade anche in quelle masse che prendono il nome di Chiesa ed Esercito. O anche nel Partito (di massa), di contro ai più moderni Movimenti. Masse sì, in tutta la loro eteronomia e verticalità costitutiva. Masse imprescindibili da un capo. Ma masse organizzate, gerarchizzate, specializzate, con la propria continuità, la propria autoconsapevolezza, le proprie tradizioni e abitudini, le proprie particolari attività lavorative e la propria collocazione sociale. Di contro, ecco i Movimenti appunto, le masse che Freud definisce “non organizzate” o “primarie”, in quanto vero e proprio ritorno all’orda primitiva, interamene sottomesse al capo, totalmente alienate in esso, disarticolate, transeunti, incapaci di darsi una continuità materiale (temporale) o formale (la sussistenza al di là della sopravvivenza di quel determinato capo).

Pensiamo a tutti quelli che si accalcano attorno a cantanti, attori e Ferragnez, follemente innamorati dei loro idoli. Scrive Freud: «originariamente rivali, hanno potuto in forza del medesimo amore per lo stesso oggetto identificarsi l’un l’altro. Allorché, come di solito avviene, una situazione pulsionale ammette esiti diversi, non ci meraviglieremo che trovi attuazione quell’esito che implica la possibilità di un certo soddisfacimento, laddove un altro esito viene tralasciato poiché le circostanze reali non gli consentono di raggiungere questa meta». C’è dunque un amore infelice, una pulsione forte ma inappagabile. Come aggirare tale inappagabilità? Rinunciando ad attenzionare quell’oggetto come oggetto pulsionale dell’Io e mettendolo al posto dell’ideale dell’Io, ossia prendendolo a modello, capo, padre, divo, influencer. Il risultato è un’orda primitiva, una massa completamente disarticolata, senza un’organizzazione in grado di renderla, anche solo potenzialmente, “Popolo”. Una massa di individui accomunati da quell’appiattimento totale che comporta, come suo risultato più pericoloso, un generale decadimento delle facoltà cognitive dei singoli, ovvero delle stesse capacità intellettive.

Insomma, la differenza cruciale tra la massa in Freud e la sua riproposizione virtuale è che se la prima esiste solo in funzione del capo, esiste cioè in virtù di una sottomissione tout court in cui sono sintetizzate e inestricabilmente mescolate le pulsioni erotiche e quelle distruttive, “di morte”, la seconda è una massificazione matematica, generata da un algoritmo che tende ad unire gli affini in quel gioco di ruolo senza regole che è il social network. Il capo, l’auctoritas, da Chiara Ferragni a Salvini, dunque risulta essere solo un elemento giustapposto, successivo, non coessenziale, ma per il quale il campo è sempre preparato. Ed è questo, del resto, il motivo per cui la polarizzazione, ossia la massificazione sul web, non solo offre concretamente poco spazio alla deliberazione ma soprattutto costituisce un serio pericolo, in senso autoritario, per la tenuta democratica.


Lorenzo Di Maria è laureato in Filosofia con una tesi sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève. Ha pubblicato articoli per PopMagLo Sguardo e Players

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