illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Matteo Sarlo
Èil 1913 e Francis Scott Fitzgerald ha superato l’esame di ammissione a Princeton. Ai genitori scrive: ACCETTATO SPEDIRE SUBITO PARASPALLE E SCARPE DA FOOTBAL. Il suo sogno è quello di entrare nei Tigers, la squadra dell’università. Poi ha fatto lo scrittore ma i suoi romanzi sono pieni di ex-giocatori di football, di campionesse di golf, truccatori di campionati con molari umani come gemelli. Per Joyce Carol Oates scrivere di Boxe costringe ad avere davanti agli occhi cosa significa, o dovrebbe significare, essere umani. Albert Camus invece amava giocare in porta, fino ad affermare di aver imparato le cose migliori sulla morale e sui doveri degli uomini dal calcio. Ma cosa spinge tre dei più grandi scrittori di tutti i tempi, esponenti di quella Hochkultur che tanto sembra lontana dal gioco, ad investirvi un tale carico di simbologia?
Il gioco è una cosa seria
Johan Cruyff. La sua Ajax è stata probabilmente la squadra che ha cambiato non soltanto il modo di giocare ma il concetto di quel modo. Perché, ed è stato un altro olandese a dirlo, il filosofo e storico delle idee Johan Huizinga, il gioco non è secondario rispetto alla cultura ma anzi la precede. E nella distinzione uomo animale, questi non hanno aspettato che insegnassimo loro a giocare. Come a dire, il gioco è un’invariante. Esiste da sempre, in ogni civiltà. Eppure la sua funzione evade la dimensione della nuda vita, per dirla alla Jan Patočka. Esso si fissa immediatamente come una forma di cultura. Il che non vuol dire cedere il fianco alla visione apocalittica della modernità come degenerazione ludica. È vero invece il rovescio: la cultura si manifesta come gioco. C’è il pragmatismo delle italiane, il gioco barocco delle spagnole – si costruisce sulla paratassi, così come la loro letteratura – l’essenzialità delle tedesche, la dinamicità delle inglesi. Poi ci sono gli olandesi. Il calvinismo e Rembrandt in un solo spazio. Il gioco è allora una funzione dotata di senso. E ad afferrarlo, a girarselo tra le mani, a cambiarlo a suo favore, ad imporsi su di esso, Cruyff è stato il più bravo di tutti. Per tre volte consecutive la sua squadra ha vinto la coppa campioni –’71, ’72, ’73 – ma sarebbero potute essere sei o sette, se Cruyff non fosse andato al Barcellona per una bega di spogliatoio. E allora Spagna. Ma il 14 olandese non ha mai amato la malinconia e il suoi occhi osservavano soltanto il futuro.
Tutto ciò che so, l’ho appresa dall’esperienza. tutto ciò che ho fatto, l’ho affrontato con un suo sguardo rivolto al futuro, con un’attenzione al progresso. Al passato non penso troppo; è il mio modo naturale di essere.
E proprio lì, indossando i colori azulgrana, getterà i semi, da calciatore prima e da allenatore poi, di quell’altro unicum nella storia del calcio: il Barcellona di Guardiola.
Johan Cruyff ha dimostrato, con un’intensità pari soltanto alla sua efficacia, che al gioco con i piedi si gioca in realtà con la testa. Perché Cruyff non è stato soltanto il miglior calciatore di tutti i tempi, né il miglior allenatore. È stato tutte e due le cose insieme. Perché il gioco, il gioco è una cosa seria.
La base del calcio totale.
Lista delle quattro azioni
- Curare il manto erboso
- Tenere in ordine gli spogliatoi
- Pulire le scarpe
- Sistemare le reti
Sa un po’ di vecchia etica, lo so. Ma è bello che alla base di qualcosa di così innovativo ci sia una roba tanto tradizionale. Queste sono le azioni che un calciatore deve considerare il centro di tutto. Il talento, la tecnica, il pallone, vengono dopo. La lezione è chiara: se vuoi eccellere, se vuoi essere il primo, devi avere cura. E Cruyff l’aveva imparato a 5 anni.
Un giorno il padre, proprietario di un negozio di frutta e verdura a Betondorp, poche centinaia di metri dal De Meer, lo stadio dell’Ajax, deve consegnare delle ceste di frutta ai giocatori infortunati. Cruyff pedala con la sua bicicletta di fianco al padre e per la prima volta varca le porte dello stadio. Qui conosce Henk Angel, amico di famiglia e addetto alla manutenzione dei campi. Zio Henk, come continuerà a chiamarlo anche quando diverrà il secondo marito della madre, dopo la morte di Manus Cruyff. Il vecchio Henk propone al piccolo di passarlo a trovare più spesso, per dargli una mano con il lavoro. Il giorno successivo, a cinque anni circa, Cruyff è di nuovo lì.
La prima volta che entra in campo durante una partita ufficiale, invece, ne ha 8. Non ha la casacca da calciatore ma in mano un forcone per drenare il terreno davanti le porte. L’area piccola è zuppa. La sua responsabilità è fare un bel lavoro con quel forcone. Così inizia la storia di Cruyff con l’Ajax. Quando molti danni dopo Cruyff si ritirerà dal calcio sia da allenatore sia da calciatore, creerà la Cruyff Foundation. Per diventare calciatori, i ragazzi devono rispettare una lista di 14 regole. La numero 2 è: Responsabilità. Prendetevi cura delle cose come se fossero le vostre. Sì, sa un po’ di vecchia etica. Ma certe volte non è così male. Perché non è tanto una questione di dogmi ma un modo di stare al mondo.
L’essenza del calcio totale.
Un giorno d’estate, durante una partita di Baseball
Quando cominciai a giocare da professionista, quello che avevo imparato nel baseball riaffiorò spontaneamente e divenne il mio punto di forza: la visione di gioco totale
Il padre di Cruyff muore nel 1959. Cruyff ha solo 12 anni. Già da due ha abbandonato il forcone ed è entrato nel settore giovanile dell’Ajax come mezz’ala. È gracile e leggero ma quello era un altro calcio e la soluzione è semplicemente più fagiolini e spinaci, per via del ferro. Anche se la madre ha un lavoro, non hanno abbastanza soldi per andare in vacanza. Così Johan rimane tutto l’anno allo stadio, a giocare a calcio. Ma Al De Meer durante l’estate si gioca a Baseball. (Inutile dirlo: Cruyff riesce anche in questo e come ricevitore raggiunge la nazionale olandese under 15). Dal baseball Cruyff apprende due cose molto precise, che saranno poi la base per la sua rivoluzione, il calcio totale.
- Pensare in anticipo
- Lo sguardo globale
Da ricevitore devi determinare il lancio del lanciatore, perché sei tu a sapere dove lanciare la palla prima che ti arrivi. E per farlo devi osservare tutto il campo. Devi capire, avere la percezione dello spazio e di ogni giocatore. Devi pensare in anticipo. Valutare le distanze e i rischi. Devi valutare se con quel lancio riuscirai a raggiungere la base prima dell’avversario. Ma è tutto in un lampo, sapere dove verrà spedita la palla.
Si tratta, in vitro, di saper leggere la realtà. Essere in grado non soltanto di vedere quel che c’è davanti a te ma quel che ci sarà. Sapere dove posizionarti e sapere che quel che farai avrà conseguenze su gli altri. Perché al gioco con i piedi non si gioca da soli ma quello che si decide lo si decide individualmente. Alla base del calcio c’è questa partecipazione mancata, o perlomeno difficilissima da realizzare. La generalità di 1 squadra + 11 singolarità. È un po’ il problema che ha Platone nel far partecipare tante cose diverse ad una sola idea. Ha tentato una risposta attraverso la logica. Ed è il caso del suo Parmenide. Ma niente. Se la pensi con la ragione, niente da fare. Soltanto alla fine però, in uno dei suoi ultimi scritti, Platone ha trovato un modo, ed è dovuto ricorrere al mito. Il Timeo e il suo Demiurgo, una figura che tiene con una mano le idee e con l’altra le cose.
Ecco quel che accade su un campo di calcio. Per questo anche in quei campi verdi così perfetti dove non penseresti che mai si possa sbagliare un passaggio, un semplice appoggio, capita che il pallone vada a vuoto. Non è un problema di tecnica di tiro. Non sempre, almeno. È un problema del passaggio dall’idea a le concretizzazioni singolari. A meno che una delle singolarità non si chiami Johan Cruyff, certo. E allora c’è chi comanda la partita. Chi influisce sui compagni, sui guardalinee, su gli spettatori. Allora c’è chi ricuce la frattura. Chi è in grado di vedere il futuro. Chi non gioca soltanto con i piedi, ma con la testa. Chi abita da un lato il piano degli uomini e dall’altro quello del mito. Allora c’è Johan Cruyff.
La squadra che ha inventato il calcio totale.
Lato Serio, lato Tutti frutti
La cosa che ti fa impazzire del calcio totale è che – come per tutte le cose che funzionano davvero – la sua essenza è riducibile con una facilità da matti e la puoi descrivere in meno di dieci parole. Sono quelle cose che non capisci perché non ci si è arrivati prima. Toccare la palla una volta sola e sapere dove andare. Punto. Niente di più. Ma per fare questo ci vuole una tecnica spaventosa, una buona dose di talento e tanta disciplina. Tutte cose su cui Cruyff e l’Ajax lavorano insieme a Van der Veen, ancora prima che venisse ad allenare Rinus Michels, che aggiungerà un altro ingrediente: l’organizzazione in campo. In sei anni da club mediocre l’Ajax diventa la squadra più forte del mondo. Una squadra divisa nettamente in due parti. Due parti che raccolgono le due anime dell’Olanda in un solo corpo. Il puritanesimo e l’arte di Rembrandt. Sul lato destro i seri, Wim Suurbier, Johan Neeskens e Sjaak Swart, che garantiscono solidità e sicurezza. Sul lato sinistro tutti frutti, Ruud Krol, Gerrie Mühren, Piet Keizer (l’unico altro professionista insieme al numero 14),e Johan Cruyff. Da loro potevi aspettarti di tutto. Un mix perfetto di tecnica, tattica, atletica, intelligenza.
L’occhio di vetro
A livello caratteriale ho preso da entrambi i miei genitori. Da mia madre ho ereditato il lato espansivo, da mio padre la scaltrezza
Jorge Valdano racconta dell’unica occasione in cui ha giocato contro Johan Cruyff. Era un incontro di ritorno di un’eliminatoria di Coppa tra il Barcellona e l’Alavés. 0 a 0 al Vitoria e tutto si sarebbe deciso al Camp Nou. Verso la metà del secondo tempo Cruyff si mise a protestare con l’arbitro per un fallo senza importanza. Valdano si mette in mezzo. Allora Johan lo guardò con una certa aria misericordevole, dall’alto al basso come ha sempre guardato. Valdano era più giovane di otto anni – nel calcio, otto anni sono tanti. Cruyff gli chiede come si chiamasse. «Jorge Valdano». «E quanti anni hai?». Valdano obbediente: «Ventuno». La risposta di Cruyff è un precipitato di strafottenza e simbologia: «Ragazzino, a ventun anni a Cruyff si dà del lei». Poi la partita Cruyff la risolve esattamente come quella conversazione – scrive Valdano – sfruttando la sua ingenuità. Cruyff entra in aria a tutta velocità con Valdano dietro ad inseguirlo. All’improvviso si ferma, Valdano riesce a evitarlo ma Cruyff cade lo stesso. Rigore. Barcellona 1 Alavés 0.
Questo tipo di scaltrezza risiede in un altro episodio di molti anni prima. Il padre, fruttatolo di Betondrop raggirava i clienti sfidandoli a guardare il più a lungo possibile il sole. Omettendo il particolare di avere un occhio di vetro. Si copriva l’occhio buono, fissava il sole per un minuto abbondante e riscuoteva la vincita. Ma non è un furbizia che procura fastidio, almeno quella di Johan è chiaro. E almeno che non sei un tifoso del Deportivo Alavés. Perché è un tipo di furbizia in qualche modo guadagnata. Questo vuol dire che se sei Cruyff puoi simulare e vincere con un rigore inesistente? O che se sei Maradona puoi portare l’Argentina alla semifinale con un gol di mano contro l’Inghilterra? Sì, se dopo segni un gol partendo da centrocampo e mettendo a sedere mezza squadra, portiere compreso. Sì, se poi cambi l’intero modo di giocare e pensare il pallone. Mi spiace, ma anche questa è una forma di etica.
Cruyff Turn
È il Mondiale del 1974. 16 squadre, 2 gruppi da quattro. Le prime due squadre di ogni gruppo sarebbero finite in due gironi, A e B, i cui vincitori si sarebbero incontrati per la finale. Quell’edizione la vince la Germania, ma tutti si ricorderanno l’Olanda di Cruyff. L’apice del calcio totale. Il mondo non è preparato. Nessuno si aspetta che a calcio si possa giocare in quella maniera. I difensori sapevano attaccare e gli attaccanti difendere. Tutti si riversavano nella metà campo avversaria. E nessuno è preparato alla Cruyff Turn. Le prime partite l’Olanda le vince con ampio margine. Uruguay, Bulgaria, Germania dell’Est e Argentina. Con la Svezia, 0 – 0. Nessun gol.
Ci sono però delle occasioni – rare nel mondo dello sport – in cui alla filosofia del risultato sopravanza qualcos’altro. Occasioni in cui ad una verità viene opposta un’opinione. Cruyff è vicino alla linea di fondo. Riceve un cross che mette giù col sinistro ma non è perfetto. Quando arriva il difensore la palla quasi gli sta per scappare via e allora la difende col corpo, di schiena. Poi mentre si sporge in avanti fa passare la palla dietro il piede di appoggio, si gira di scatto e corre verso la direzione opposta. La finta è oggi un’icona. Cruyff non l’aveva mai provata in allenamento. È stata un’idea improvvisa. Il modo migliore che trova il genio per uscire da una situazione. Descrive con il corpo una specie di virgola, iniziando un poco in avanti e poi subito indietro. Julio Cortazar l’ha definita una porta girevole del pensiero. Ma, credo, si possa dire la stessa cosa anche della finta di Johan Cruyff.
Il futuro è una tempesta
Johan Cruyff muore il 24 marzo 2016. Il figlio Jordi ha dichiarato che la volontà del padre era quella di una cerimonia funeraria sobria. Alla cremazione ha partecipato soltanto la famiglia e una ristretta cerchia di amici. Ma Jordi sa benissimo che Johan Cruyff è qualcosa di più di un semplice uomo. Non appartiene solo ai familiari, appartiene a tutti. E aveva ragione Jordi, ma soltanto a metà. Johan Cruyff non appartiene soltanto ai familiari, è vero, ma non appartiene neanche soltanto a noi. Johan Cruyff apparterrà sempre a quelli che verrano dopo.
Forse soltanto ora, lui che non ha mai guardato indietro, forse soltanto ora sarà volto al passato. Ma come per l’angelo di Benjamin che guarda le rovine dietro di sé nel desiderio di ricomporle, Cruyff è preso da una tempesta che spira dal paradiso e che si è impigliata nelle sue ali. Johan Cruyff è quell’angelo. Ha avuto negli occhi soltanto il progresso, spinto dalla tempesta verso il futuro.
Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passagi sul vuoto, un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia.