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“Non ce la faccio”. Manchester by the sea e il fantasma di T.S. Eliot
12/03/2017|L'ANALISI

“Non ce la faccio”. Manchester by the sea e il fantasma di T.S. Eliot

“Non ce la faccio”. Manchester by the sea e il fantasma di T.S. Eliot
illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Luciano De Fiore

 

Non è il mare, il pericolo. Non in questo bel film di Kenneth Lonergan. Eppure, l’oceano ruggisce spesso intorno Cape Ann, la frastagliata penisola a nord di Boston, Mass. All’ingresso di Gloucester, un marinaio di bronzo alla ruota del timone, nella cerata lucida d’acqua, ricorda che da quel piccolo porto, il più antico d’America, già celebrato da Kipling in Capitani coraggiosi, sono salpate nei secoli mille e mille baleniere e pescherecci, prua verso i banchi ricchi di merluzzi ed halibut, e molti – come l’Andrea Gail di Wolfgang Petersen ne La tempesta perfetta – non hanno fatto rientro. Pur accusando l’età e problemi al motore, la barca da pesca agli astici di Joe (Kyle Chandler) e di suo fratello Lee di cinque anni più giovane (Casey Affleck, Oscar come attore protagonista), ogni giorno lascia gli ormeggi di Manchester by the Sea, poche miglia più a est, affrontando quel mare senza paura.
Piuttosto, l’insidia è interna, abita ognuno di noi. Fisica e sentimentale. Joe, quarantenne stimato dalla comunità e padre di Patrick (Lucas Hedges), deve fare i conti con una moglie alcolizzata e con un grave scompenso cardiaco. Fino a morirne. Lee è costretto così a tornare da Boston, sotto una tempesta di neve, per occuparsi delle esequie del fratello e del domani del nipote sedicenne.

Dal borgo marinaro era fuggito dopo aver perso le tre figlie bambine in un incendio, e la moglie Randi (Michelle Williams), che lo aveva lasciato tra recriminazioni legittime e i postumi dello shock susseguente al rogo. Da anni Lee si si era rifugiato in un monolocale a circoscrivere la propria disperazione, incapace di elaborare il lutto, schiacciato dal senso di colpa. Se non è un reato dimenticare di mettere il salvafiamma davanti al camino acceso, è una colpa autentica non proteggere adeguatamente la propria famiglia, lasciare che quella maledetta notte gli amici bevessero troppo, si facessero di coca, disturbassero le bambine e la moglie. Quel salvafiamma Lee avrebbe dovuto metterlo a riparare i suoi affetti, e non lo aveva fatto. E mentre andava all’emporio a comprare altre birre, usciti gli amici, un ciocco era rotolato fuori e tutto era andato letteralmente in fumo, anche la sua vita. Il tempo può lenire il trauma, ma non la colpa. Specie se ci si nega agli altri, se si sceglie di vivere reclusi nella propria disperazione.
Non c’è redenzione, nel tempo, scriveva T.S. Eliot nei The Dry Salvages dedicata proprio a quegli scogli di granito bassi e insidiosi che s’intravedono poco oltre una linea di costa che mette in fila Concord, che celebra Henry Thoreau, Amherst dove viene ricordata Emily Dickinson e Salem, il villaggio delle streghe e di Nathaniel Hawthorne, pochi chilometri più in là. Invece, cerchereste invano Eliot tra i personaggi illustri di Gloucester citati da Wikipedia. Se non fosse per il suo sottile ma tenace fantasma che visita chi ama la sua poesia e che dicono si aggiri ad Eastern Point, al 18 di Edgemoor Road, nella villa dove per vent’anni Tom trascorse le estati, riacquistata di recente dalla Eliot Foundation.

Le vicende riportano Lee a Manchester. Vorrebbe sbrigarsi e scapparsene, ma non può. Il terreno è gelato, non si può neppure seppellire Joe. E Patrick, sveglio ed indipendente, è pur sempre un ragazzo di sedici anni senza un dollaro. Ma è superiore alle forze di Lee incontrare l’ex moglie con un bambino di un altro nel passeggino. Randi gli manifesta una pietà che sconfina nell’amore, un amore che Lee non è in grado di accettare. Troppo ardente ancora è l’ustione, troppo profonde le ferite: «Non posso, non posso», sono le parole che rivestono a brandelli la sua inadeguatezza, la sua infelicità. Anche la sua voce nel doppiaggio italiano, agli inizi straniante per il tono monocorde, si confà alla lunga al personaggio.

La vitalità adolescenziale di Patrick, i suoi amori impacciati, il suo desiderio di farcela nonostante la morte improvvisa del padre e la ricomparsa perturbante di una madre ancora irrisolta, sono il vero legato che Joe ha lasciato al fratello. Con il figlio, gli ha fatto dono di una responsabilità, anche se nulla e nessuno potrà compensare la perdita delle tre bambine bruciate che ancora visitano gli incubi del padre. Lee non si sente all’altezza del compito al quale lo ha chiamato il fratello maggiore, non riesce a vedersi tutore del nipote. Non riesce a credersi di nuovo capace di amare, di assolvere fino in fondo alle proprie responsabilità di capofamiglia. Ma quel ragazzo allampanato ed ironico è la sua ultima risorsa. In un colloquio risolutivo, Lee confessa al nipote: «Come on, Patty…I can’t beat it…. I can’t beat it. I’m sorry». Ancora una volta: non ce la faccio. Non riesco a sopportare il dolore e la perdita. Anche se – nel dirlo – Lee si alza, passa dietro al ragazzo che singhiozza col capo sul tavolo e lo abbraccia. Un gesto d’affetto, uno dei pochi che si concede un film parco e dolente, dalla sceneggiatura scabra, premiata dall’Oscar.

Sta entrando la primavera anche sulla costa del Massachusetts. Il terreno ormai disgelato ha consentito finalmente di tumulare il corpo di Joe, e Lee e Patrick passeggiano per il paese, tra alberi che gettano le prime gemme. Lee ha dato dieci dollari al nipote per un gelato, e Patrick gli cammina al fianco, lanciandogli di tanto in tanto una pallina di gomma. Lee gli comunica che con l’estate tornerà a Boston, da solo, e che Patrick potrà restare a Manchester andando a vivere da un vecchio amico di famiglia, continuando ad occuparsi della barca e delle sue ragazze. Ma la pallina che prima gli rimbalza accanto senza esser raccolta, comincia poi ad andare e venire tra zio e nipote. E Lee dice che nel nuovo piccolo appartamento bostoniano appena affittato metterà un divano-letto per consentire a Patrick di fargli visita. Per consentire a sé stesso di provare ancora un affetto, di darsi uno scopo, facendo breccia nel proprio dolore. Non sarà una gran vita. Ma sarà qualcosa. E pare di sentire ancora l’invito realistico, quasi freudiano, del misconosciuto poeta di casa: «Not fare well, \ But fare forward, voyagers».


Luciano De Fiore è docente di Storia della filosofia contemporanea. Tra le ultime pubblicazioni La città deserta. Leggendo il Sapere assoluto nella Fenomenologia dello spirito di Hegel; Philip Roth. Fantasmi del desiderio; Anche il mare sogna. Filosofia dei Flutti.

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