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VEDERE OGGI. IL SELFIE E LA TECNO-VISIONE
04/05/2017|L'ANALISI

VEDERE OGGI. IL SELFIE E LA TECNO-VISIONE

VEDERE OGGI. IL SELFIE E LA TECNO-VISIONE
illustrazione di Chabacolors
parole di Matteo Sarlo

 

C’è una sorta di slogan nella meditazione sui media. L’ha ideato Friedrich Kittler, uno che dietro la montatura degli occhiali e i lunghi capelli bianchi qualche centimetro sotto le orecchie, ha sempre mostrato una sorta di concessione alla giovinezza. Se non fosse per il suo sguardo gentile, gli zigomi pronunciati e il viso ovale lo avvicinerebbero a una sorta di Clint Eastwood del pensiero. Kittler ha insegnato Storia dei media alla Humboldt, a Yale e alla Columbia. E credeva questa cosa qui: i media stabiliscono la nostra posizione. La frase è diventata una sorta di mantra. In tedesco suona così: Medien bestimmen unsere Lage.

Ci siamo noi, e ci sono questi strumenti che amplificano le nostre capacità. L’aratro per coltivare e il cannocchiale per osservare lontano, il bastone su cui scaricare il peso e continuare le passeggiate in vecchiaia e i carri per andare più veloci. Ci sono questi utensili che ci permettono di fare tutto quello che facevamo anche prima, ma più velocemente e con maggiore efficacia. Eppure il rapporto dell’uomo con l’oggetto tecnico non è sempre stato ben visto da parte della filosofia. Il caso di Martin Heidegger è emblematico. La filosofia è superiore alle scienze ed è trattata dal grande pensatore tedesco un po’ come il marito geloso e iperprotettivo che, per evitare qualsiasi tipo di incontro “sconveniente”, rinchiude la moglie nel gineceo più lussuoso della città dichiarandole che non è adatta alla vita di fuori, e che è nata per vivere esclusivamente tra le stoffe dei migliori salotti.

Ma altri non hanno sentito il pericolo di questo avvicinamento, tra l’uomo e la tecnica. Ernst Cassirer già nel 1921 scrive un saggio, Zur Einsteinschen Relativitätstheorie, sulle conseguenze epistemologiche nascenti dal confronto tra le acquisizioni della scoperta einsteiniana della relatività e l’opera di Immanuel Kant.

Poi ci sono gli schermi. Dentro questi schermi vediamo cose vicine e remote, reali e virtuali. Vediamo perfino noi stessi. Ah, la vista, il più cinico di tutti i sensi. Si concentra su qualcosa in particolare, quel giocatore con la maglia dieci in uno stadio, quel tipo particolare di auto che brucia il semaforo, quella donna in mezzo alla folla, e sfoca completamente ciò che non gli piace, ciò che ha attorno o accanto. L’occhio è un specie di organo settore. Sta lì che continua a tagliuzzare la realtà. In inglese lo chiameremmo un cut off rispetto al campo. Sta lì e scontorna, zuma, sfoca. Ma non fa soltanto questo. O meglio, queste abilità, in parte istintive in parte guidate dalla volontà, lo rendono vicinissimo alla penna di uno scrittore. Trasforma in immagine tutto quello che sperimenta. Per dirla in una frase, l’occhio mette la cornice al mondo.

Il suo specifico, il suo genere, ha incuriosito il pensiero sin dall’antichità, dai greci fino ai tedeschi. Hannah Arendt ne individuava la proprietà specifica nella sua tenuta a distanza. La vista marcherebbe immediatamente una differenza, tra chi guarda e la cosa guardata. Cioè tra soggetto e oggetto. Questa distanza permetterebbe l’elaborazione critica. Una concezione nobile e casta della vista. Il soggetto non è influenzato dall’oggetto. Ci sono gli uomini che guardano, e ci sono le cose del mondo che vengono guardate. Punto.

Dal quadro alla foto

Poi è nata la fotografia e ha cambiato le carte in tavola. È vero, molti ritratti su tela sono antesignani della fotografia, o almeno di un certo tipo di fotografia. Quella, appunto, da ritratto. Questo darebbe adito a quella scuola che vede tra le due arti un rapporto di filiazione. Ma c’è una differenza sostanziale. I quadri sono sempre testimonianza di colui che li ha dipinti. Chi sia davvero la dama con l’ermellino è una domanda che non ti poni. Se non sei certo uno storico dell’arte o un feticista del gossip a largo giro. La dama con l’ermellino è Leonardo da Vinci. Il ritratto di Dora Maar è Picasso. La ragazza con l’orecchino di perla è Vermeer. Forse prima che diventasse Scarlett Johansson, ma questo è un altro discorso. Insomma, il quadro testimonia l’artista. Nel caso della fotografia accade qualcosa di nuovo e diverso. Nella fotografia, persino quella più autoriale, il personaggio tende a mangiare l’autore. È stato Walter Benjamin a notarlo per primo. Nella pescivendola di New Haven (1846) che guarda a terra “resta qualche cosa che non si risolve nella testimonianza dell’arte del fotografo David Octavius Hill, qualcosa che non può venir messo a tacere e che inequivocabilmente esige il nome di colei che lì ha vissuto. Anche nell’effige qualcosa permane”. Un resto che non retrocede e scompare. E che mai si dissolverà in arte.

Questo accade perché, Benjamin alla mano, la natura che parla alla macchina fotografica è una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente. La fotografia, potremmo sintetizzare, è la psicologia dell’immagine: scopre un inconscio ottico tra le maglie del visibile. Il vedere allora può avere come corrispondente il far vedere e il farsi vedere. La donna della foto, così, si dispone e si atteggia in vista dell’altro. Stabilisce cioè la posizione dell’altro e ne predispone lo sguardo. Ed ecco qui lo slittamento: una vista predisposta perché qualcuno guardi si chiama spettacolo. Il vedere nella contemporaneità è sempre di più vedere spettacoli. Cose “montate” per creare un effetto. Una incalcolabile dilatazione del vedere, delle cose da far vedere, delle cose da vedere, e degli strumenti per vedere e far vedere. La concezione nobilitante della vista, quella casta, quella per cui soggetto e oggetto non sono reciprocamente influenzabili, si rivela del tutto inadeguata alla situazione odierna.
Certo, permane la distanza di sicurezza che questo senso consente. La vista colloca gli oggetti in uno spazio di irraggiungibilità e di intangibilità, che facilmente si può convertire in uno spazio di indifferenza nei confronti della cosa da vedere. Si possono cioè vedere da lontano le cose più orribili senza esserne minimamente coinvolti. Notiziari o film hollywoodiani. A queste condizioni, ne consegue, anche la morte può essere uno spettacolo. In una immagine classica: il viandante che osserva da lontano il naufragio senza avere la possibilità di intervenire, ma nemmeno d’essere messo in pericolo dalle onde.

Il Visionario

Ma nella nostra epoca tra chi vede e l’oggetto della visione si è frapposto, in modo sempre più infiltrante, un elemento ulteriore: la mediazione tecnologica. Molte cose che stanno di fronte a noi per essere viste non si mostrano direttamente ma solo tramite avatar. Non vediamo più solo cose, ma le loro raffigurazioni elettroniche. In taluni casi le cose sono assenti, ma i loro avatar insistentemente presenti. Per usare un altro slogan allora, nella società contemporanea non vediamo, tecno-vediamo. La nostra esperienza è costituita da cose che non abbiamo mai visto, ma tecno-visto, dilatando incommensurabilmente il perimetro della nostra esperienza. Questo ha due conseguenze, soltanto apparentemente contraddittorie tra loro:

•    Accentuazione della distanza di sicurezza
•    Degradazione della densità della realtà.

La tecno-visione produce poi un terzo risultato, corollario della seconda conseguenza: quel che più importa, accanto al mondo reale, non è più l’immaginario ma il visionario. Il visionario ha bisogno di riempirsi sempre di nuovi oggetti. Oggetti particolari. Non lasciano traccia, non sporcano, non pesano, non ingombrano, in fondo non è neanche indispensabile che esistano.
E allora ha ragione il linguista Raffaele Simone a dire che nel mondo visionario il legame a due implicato nel vedere (tra chi vede e la cosa che vede) si è moltiplicato in un quadrilatero: sul primo lato sta il vedere, enormemente potenziato dalla tecnologia; sul secondo un incremento della spinta a far-vedere; sul terzo la propensione a farsi vedere e sul quarto il desiderio di vedersi.
L’insieme di questi fenomeni (dilatazione del vedere, esplosione della tecno-visione, produzione di eventi) porta a concludere con Debord che è caduta la differenza tra realtà e finzione. Il reale si de-realizza, diventa agli occhi di chi è abituato alla tecno visione, impalpabile al pari della sua raffigurazione.

Ma c’è dell’altro. La tecno-visione è qualcosa di più di una vista aumentata. Cambia la genetica dello sguardo. Non si guarda più per conoscere ma per condividere. Sino al punto di condividere se stessi. Non però come uomini interi ma come facce. Esattamente al contrario dei personaggi di Bret Easton Ellis, uomini decapitati descritti dalle spalle in giù soltanto dai brand che indossano, la logica del social procede al contrario, dalle spalle in su: la faccia come brand. E allora la tecno-visione permette la configurazione di una nuova cornice. Quello che bisogna ritagliare non è più il mondo ma i propri volti. Soltanto i propri volti. Persino nel linguaggio quotidiano ricorre sempre più l’espressione “metterci la faccia”, come assunzione di responsabilità e di esposizione al pubblico. Facebook è il luogo pensato ad hoc per questo nuova cornice con un nome preciso: selfie. Il selfie è un tipo di scatto che differisce dall’autoscatto. Anche qui, come nel caso della pittura e della fotografia, si potrebbe pensare ad un rapporto di filiazione. Eppure, ancora una volta, la differenza è sostanziale. Mentre nel primo è la macchina che ti guarda, è l’occhio della reflex a decidere in definitiva la tua espressione, che non conoscerai finché non ne vedrai l’immagine, nel selfie l’istantanea è davvero tale, e non conosce sorpresa. La tua espressione è già decisa e soltanto quando riuscirai ad esibirla allora scatterai. Un espressione apparecchiata per essere vista.

Il Selfie e l’Anagrafe dell’Altro

Eppure le cose non sono così facili. Detta così sembrerebbe che il selfie raggiunga la massima aspirazione dell’essenza fotografia, dell’Hic et Nunc, quella cioè del cogliere l’attimo. Inoltre è risaputo che anche grandissimi fotografi, come il già citato Hill, costruissero le proprie fotografie ad hoc, con lunghe esposizioni durante le quali i soggetti rappresentati dovevano essere immobili come su un set. La macchina appoggiata al cavalletto. Ma qual è allora la vera foto? Quella di Hill o quella del selfie? Qual è la costruzione più vera? Mentre la prima, con Benjamin, è costruita per sprofondare nell’attimo (utilizzando le sue parole: “il procedimento stesso induceva i modelli non a vivere proiettandosi fuori di quell’attimo bensì a sprofondare nel suo interno”), la seconda è costruita per uscirne. Uscirne, ma per andare dove? Nell’anagrafe del Grande Altro, quella nozione lacaniana che altro non fa che tradurre il super-io freudiano ed estenderlo alla società. Di cosa parliamo?

Per capirci meglio, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974). Quello con la Melato e Giannini. Lui proletario, lei ricca e alto-borghese, naufraghi su un’isola deserta. Cosa accade? Lui sa fare, lei non sa fare. Lei diventa dipendente da lui e lui si vendica. La insulta. Inizialmente esplode il conflitto di classe. Eppure, lì sull’isola deserta, tutto quel codice di sovrastruttura civile, politica ed economica, non governa più i loro comportamenti e i due si innamorano. Quando però lei dichiara il suo amore la risposta è netta: perché siamo qui da soli. Cosa vuol dire? Non, come sarebbe facile pensare, che sono soltanto in due su quell’isola, non la dimostrazione di uno stato di necessità ma l’assenza del complesso dell’appartenenza sociale. Questa cosa qui è quella che si chiama Grande Altro. Fuori dall’Altro lei si può innamorare di lui, può vivere con lui e respirare il suo amore. Fino al punto di non voler tornare indietro. Eppure, una volta recuperati e riportati in società, lei sceglie l’Altro. Tutta la loro storia, agli occhi dell’Altro non è mai esistita. Lui torna con la moglie e lei torna a casa. Da qui una facile lezione: tutto ciò che non è iscritto nel grande altro, non esiste.

Dove vanno a finire allora i selfie? Perché scelgo di scattare un selfie con il mio cellulare e non un autoscatto con la mia reflex oppure chiedendo a un passante uno scatto di cortesia? Di certo c’è una questione di praticità e immediatezza, ma non spiega l’enorme mole di selfie postati sul web. Non decido di scattare un selfie (solo) perché è più comodo. Decido di scattare un selfie per entrare nell’anagrafe del Grande Altro che si chiama Facebook. Cosa vuol dire allora il selfie? Una cosa molto precisa. Vuol dire “io esisto”. Il selfie è un modo di essere tecno-visti. Il selfie è un modo di esistere nel mondo.


Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passagi sul vuoto, un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia

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