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Tecnologia e Solitudine
26/10/2017|L'ANALISI

Tecnologia e Solitudine

Tecnologia e Solitudine
illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Marta Gambetta
Sempre più connessi e sempre più social. Ma poco è lo spazio per il rapporto riflessivo con il proprio sé. Ma è davvero tutta colpa dei social? E se questi non fossero altro che la lente di ingrandimento per un  controinuitivo e radicale individualismo?

Il Signor Nessuno si sveglia alle 7:30, come ogni mattina. Il braccio destro fuoriesce dalle coperte, come un ligio soldato trapassa il freddo rarefatto di ottobre e raggiunge il telefono: sarà una giornata piovosa. Nessuno si alza, si stiracchia, canticchia ad alta voce il testo di T.N.T. degli AC/DC mentre è sotto la doccia. Dopo pochi minuti è in macchina, ad ogni semaforo mette in pausa Virgin Radio e controlla le prime mail di lavoro, risponde ad alcuni Whatsapp. Al bar prende un caffè, saluta i colleghi abbozzando un sorriso a mezza bocca dietro la tazzina, poi chiacchiera con il barista del tempo e delle ultime notizie. Alle 8:30 è seduto alla sua postazione: inizia il via vai di persone, di chiamate, di firme. Nella pausa pranzo fa un giro su Facebook, commenta e condivide, riceve una chiamata della figlia che è a casa della mamma con la febbre. Il tempo di concludere la telefonata ed è già tornato in ufficio. Riesce a malapena a prendere un caffè verso le 16:00. Uno sguardo veloce al telefono: Marianna, la sua prima ragazza conosciuta quando andava alle elementari, è incinta; glielo sbatte in faccia Facebook con una foto di lei che si accarezza il pancione. Il post dice “E’ ufficiale! Arriverà Giovanni!”, tutti si prodigano in auguri e complimenti più o meno sentiti. Marco è invece arrabbiato come sempre con il sindaco, uno stato inequivocabile lo ribadisce. Improvvisamente, Nessuno realizza che il sole è tramontato da un pezzo, raccoglie le sue cose ed esce dall’ufficio. In macchina chiama la madre per accertarsi delle sue condizioni, subito dopo è il turno della figlia. Arrivato a casa si prepara da mangiare dando un’ultima controllata alle notizie in TV, nel frattempo parla su Messenger con alcuni amici per organizzare una serata al pub il prossimo weekend. Vorrebbe leggere un libro, ma si sente troppo stanco quindi opta per un film. Verso le 23:00 è nel letto, pronto per il meritato riposo. Passa almeno una mezzora tra Facebook, Twitter, Instagram e Youtube. È ora di dormire: attiva la sveglia e spegne la luce. Non riesce a prendere sonno, si sente inquieto, ma l’importantissimo meeting del giorno seguente non gli consente di rubare altro tempo prezioso al ristoro. Deve dormire. Una voce risalendo gli stati di coscienza si palesa come uno sgradevole reflusso: “ti sembra vita questa? Dovresti trovarti qualcuno, avresti dovuto prenderti la giornata per stare un po’ di tempo con tua figlia! Il meeting di domani ti tiene sveglio? Sarà un altro noiosissimo e inutile incontro tra gradassi ignoranti!” La voce non ha intenzione di fermarsi, quindici gocce di Lexotan: tutto è buio, in un silenzio di tomba.

Sdoppiamento riflessivo
Il Signor Nessuno vive da solo, eppure, paradossalmente, soltanto di rado rimane con se stesso. Per lui come per ogni altro è sempre più difficile conquistare uno spazio autonomo dall’intreccio di vite e di eventi che ci raggiungono da ogni dove. Con un computer connesso nulla è distante: non c’è niente che non possa essere presente alla nostra coscienza, eccezion fatta per il nostro sé. La tecnologia e l’interconnessione onnipresente agiscono nella realtà contemporanea come diversivi. La zona personale è conquistata – più o meno consensualmente – dall’altro, amico o estraneo, vicino o lontano che sia, di modo tale che siamo proprio noi a diventare estranei nei nostri stessi riguardi, ignorando l’altro che è in-noi e con-noi.

«Nella solitudine […] sono con me stesso, e perciò due-in-uno, […] la riflessione, in senso stretto, si svolge in solitudine ed è un dialogo fra me e me;» scrive Hanna Arendt ne Le origini del totalitarismo, e prosegue, «ma questo dialogo del due-in-uno non perde il contatto col mondo dei miei simili, perché essi sono rappresentati nell’io con cui conduco il dialogo del pensiero.» Il punto di riferimento della filosofa tedesca è il greco Epitteto che, secondo quanto riportato dal discepolo Arriano di Nicomedia, affermava: «[…] gli uomini sono per natura socievoli, si amano di mutuo affetto e stanno volentieri in compagnia l’uno dell’altro. E non di meno bisogna prepararsi anche a questo, a poter bastare a se stessi, a poter stare insieme a se stessi.» Poco dopo continua sostenendo che l’uomo non deve «essere in imbarazzo sul modo di passare il tempo.» Quale miglior termine per focalizzare l’attenzione, nell’epoca contemporanea, su quella sensazione di disagio e di noia che al primo accenno di solitudine ci fa tirare fuori automaticamente il cellulare per controllare le notifiche del caso? Evidentemente affrontare questo “secondo” è di non poco peso per l’essere umano. Tralasciando tutti i movimenti di emarginazione sociale, egli preferisce non trovarsi “di fronte allo specchio” e anzi spesso, anche involontariamente, rifugge ogni sdoppiamento riflessivo.

Il rapporto a sé e gli altri
Molti sono i filosofi che hanno cercato di spiegare l’orrore che viene sperimentato dall’individuo nella solitudine, al cospetto di sé. L’essere da soli è l’essere con se stessi e senza gli altri, è l’esperienza individuale per eccellenza che si concretizza, e si teme, soprattutto al cospetto della morte. Nella morte viene a compimento l’univocità del singolo nella comunità, con le parole di Heidegger, io non posso mai esperire, vivere, sentire su di me la morte d’altri. La morte è la mia fine, è una fine che mi identifica e che al tempo stesso mi separa (perlomeno fisicamente) dall’esistenza di tutti gli altri. In quest’ottica la solitudine è temuta in quanto strettamente legata alla paura della propria fine e del nulla, dell’insensatezza della vita umana che emerge dalla considerazione riflessiva della morte come unica certezza. Con internet, attraverso i social media, anche nella solitudine fisica possiamo essere realmente con altri e non affrontare il senso di questa finitudine.
Ma il rapporto con se stessi si riversa anche nello sdoppiamento del sé che si analizza attraverso la voce del pensiero o della coscienza, che dir si voglia. In questo essere doppio nasce il giudizio, si palesa un giudice che non può aver torto, che non fraintende, che è al contempo imputato e testimone. Da un rapporto con se stessi emergono, come condizioni esistenziali, la libertà e la responsabilità articolati tra i piani, i riflessi e le finzioni che si attorcigliano nel nostro intimo. È di gran lunga più facile aprire una finestra virtuale sul mondo e giudicare tutto ciò che appare oltre lo schermo, piuttosto che approfittare dei momenti di pausa per mettersi al banco di prova. Oggi ancor più di ieri siamo assuefatti alla rapidità delle scorciatoie. Ma la discesa può non essere la strada migliore, per raggiungere la vetta bisogna faticare lungo la salita. È tramite il vissuto della solitudine che si può imparare a gestire non solo la capacità progettuale che ognuno di noi possiede in quanto essere umano, ma anche l’angoscia dell’indefinito o del nulla che è oltre la vita mortale; solo tramite l’introspezione si diventa individui liberi e consapevoli di giocare al quotidiano scambio di ruoli e di inscenare il continuo sfoggio di maschere richiesto dalla società. Solo osservando l’abisso delle nostre paure, dei nostri dubbi, solo al cospetto di noi stessi è possibile un certo labor limae esistenziale che ridefinisca e faccia progredire la nostra personalità, che possa restituire il senso di ciò che, a meno delle sovrastrutture sociali, è realmente importante nelle nostre vite e nel rapporto con il resto degli individui. È di fronte ad un “Io” consapevole e riflessivo che si costituisce – a partire dall’Altro – un “Me” che possa essere accolto. In questo momentaneo ripiegamento introspettivo, l’Altro, gli altri esseri umani non sono abbandonati o ripudiati, non si tratta di una forma di individualismo assoluto. Essi vengono momentaneamente allontanati per essere poi recuperati come parte fondamentale di questo continuo auto-investimento di senso. La Arendt scrive infatti: «Il problema della solitudine è che questo due-in-uno ha bisogno degli altri per ridiventare uno: un individuo non scambiabile, la cui identità non può mai essere confusa con quella altrui. Per la conferma della mia identità io dipendo interamente dagli altri.» Allo stesso modo, Antonio Roquentin, il protagonista de La nausea di Sartre, solo con se stesso, di fronte allo specchio, riconoscere il suo volto riflesso: «evidentemente v’è un naso, due occhi, una bocca, ma tutto ciò non ha senso, nemmeno espressione umana.»

Dove guardare?
Per secoli, tralasciando alcune menti eccezionali, l’essere umano ha camminato cercando un senso fuori di sé, fissando il cielo e le stelle in direzione di un oltre indefinito. Nel momento in cui ogni senso, ogni significato assoluto, è venuto meno ha iniziato a fissare il terreno per ricostruire delle fondamenta solide e forti di una oggettività scientifica. Ora che il senso agognato sembra essere quasi impossibile da trovare, sfuggente come uno spettro rosso all’orizzonte, potrebbe essere più importante che mai affrontare l’Altro che è in noi e sedersi di tanto in tanto al tavolo con se stessi come di fronte a uno specchio immaginario, per modellare un senso personale da realizzare insieme agli altri. E se fosse impossibile? Se l’horror vacui dovesse rivelarsi un sentimento atavico e ineludibile? Se l’atto della saturazione continua – che riempiendo elimina lo spazio dello sdoppiamento riflessivo – fosse effettivamente un automatismo intrinseco alla natura umana, del tutto originario rispetto allo sviluppo tecnologico contemporaneo? Dovremmo sicuramente ripensare l’intera fisionomia del progresso scientifico e riconoscerci come carnefici, piuttosto che come vittime, come causa prima di un progressivo e inevitabile annientamento della nostra stessa umanità. In fondo cosa sono la caccia, la coltivazione, le conquiste, l’urbanizzazione, la sovrappopolazione, la burocrazia, le gerarchie, la tecnica, il consumismo, la tecnologia di internet, la connessione social, se non tentativi di colmare il vuoto in ogni sua possibile manifestazione?


Marta Gambetta è laureata in filosofia con una una tesi sul pensiero morale di Cora Diamond. Nel 2017 pubblica con la casa editrice L’Erudita una raccolta di poesie dal titolo L’alba al tramonto.

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